I vescovi riuniti in preghiera nella Basilica di San Pietro (foto LaPresse)

Rischi dell'ipocrisia pastorale

Giuliano Ferrara

Qualcosa non ci convince in questo sinodo allegramente spencolato verso di noi, consolatorio, premuroso, remissivo e disattento alle conseguenze delle nostre miserie. Il peccato, si dice. Mi scrive un amico che ama, e giustamente, i gesuiti. Non fare il sofistico – argomenta – con il probabilismo di Pascal, che irrideva i reverendi padri per la loro furba svalutazione del peccato, quel peccato di cui il peccatore non abbia consapevolezza.

Qualcosa non ci convince in questo sinodo allegramente spencolato verso di noi, consolatorio, premuroso, remissivo e disattento alle conseguenze delle nostre miserie. Il peccato, si dice. Mi scrive un amico che ama, e giustamente, i gesuiti (a pagina due). Non fare il sofistico – argomenta – con il probabilismo di Pascal, che irrideva i reverendi padri per la loro furba svalutazione del peccato, quel peccato di cui il peccatore non abbia consapevolezza. Ti cito, mi scrive, il catechismo della chiesa cattolica: lì è chiaro che oltre ad essere “grave” la materia, perché ci sia un peccato mortale occorre “piena avvertenza”. Io non voglio irridere nessuno, tanto meno i gesuiti, che sono l’ultima élite di qualche rango, gente che tra il cielo e la morale comune ha messo più cose di quante sia possibile immaginarne. Ma la materia grave di cui discute il sinodo sembrerebbe escludere per chi si risposa dopo il divorzio (una o due volte?), per chi convive in un amore monosessuale, per chi affitta un utero e alleva figli così prodotti, una sia pur lieve inavvertenza.

 

Non ce l’ho con le persone, che per me hanno molti più diritti e desideri di quanti esse stesse riescano a immaginare. Non ho titoli per avercela con alcuno. So giudicare e non me ne vergogno, ma evito di farlo quando non strettamente necessario. Sono sposato civilmente, e come confessai alla sposa con un po’ di vergogna, anni dopo, dissi di sì con la riserva mentale della possibilità di un divorzio. Non ho ansie. Non ho pulsioni moraliste. Però vorrei peccare senza l’autorizzazione del vescovo o del prete. Ecco. Vorrei vivere e trasgredire qualcosa di simile alla legge morale, simulacro di buon senso antico o semplice modello di comportamento ricavato dalla ragione umana, in un mondo in cui resistano le differenze, le vie, le verità e le vite che non mi tolgono la libertà, ma resistono e persistono in modo evangelico e tosto, dottrinale se volete o dogmatico, salve le mie laicissime prerogative di cittadino che si crede adulto. Il problema del sinodo non è la legge civile, che è affar nostro, di non tonsurati capaci di parlare con tutti, anche con i preti quando necessario; il problema dei vescovi e del Papa è lo spirito che soffia dove vuole. Ciò che, dico la frase appena citata, può essere la più solenne e vivida espressione della libertà umana, divinamente tutelata, oppure una sorniona ipocrisia relativista. Se non il paravento clericale e pastorale per una strana, incomprensibile resa ai più strambi desiderata del mondo, ai suoi cahiers de plaisir.

 

Devo supporre che il teologo del Papa, l’arcivescovo Víctor Manuel Fernández, abbia coraggio e nitidezza di cuore. Chi sono io per escluderlo? Fa bene il prelato a soffiare dove vuole, avvertendo il sinodo con parresìa che “la dottrina evolve”. Ma che Gesù “non si allontanasse da nessuno”, lui che seppe dire “vade retro”; e che il bene non dico da procacciare ma da perseguire sia quello “possibile”, quando la perfezione invocata dal Signore è quella del padre celeste; e che ogni cosa sia accoglibile e accettabile, il “gradualismo”, il vangelo “portato a tutti”, il rispetto per la “fatica” di vivere, d’accordo: ma si abbia la ispirata decenza di offrirci una chiesa povera anche di ipocrisia. Una chiesa come quella profetica di Stanislaw Grygiel e Giovanni Paolo II, di cui offriamo testimonianza con un bel saggio sulla caratura dell’amore e sulla sua espressione nei rapporti umani, compresi quelli familiari (nell’inserto I del giornale di oggi).

 

Oppure no. Un’altra chiesa è possibile. Oltre certi confini e audacie sperimentali si può e forse si deve riformulare, ridefinire, cambiare la stoffa e non il rivestimento, cambiare nel chiarore dell’intelligenza piuttosto che evolvere nell’opaca inconsistenza della cura pastorale senza altra luce di ragione e di fedeltà che l’imitazione di quel che anonimamente è.

 

[**Video_box_2**]Il canonista callejero don Vinicio ieri nel Foglio diceva che l’indissolubilità matrimoniale è una grazia, più che un obbligo canonizzabile, e se dunque manca, si assenta, si nega, sarà l’imperfezionata natura a provvedere, e la via della salvezza sacramentale resta salda nelle mani della chiesa, che deve offrirla anche ai caduti provvisori nella forma dell’ostia consacrata. Questi sono preti che hanno il coraggio di riformulare il Concilio di Trento, e procedere o recedere senza paura verso una rediviva teologia sola fide. Il teologo Andrea Grillo era molto oltre Walter Kasper, quando qui da noi con Marco Burini destituiva di uno status spirituale speciale la famiglia, alla luce di una certa noncuranza evangelica per tutto quanto non sia sequela del Signore, ma alla fine è più persuasivo. La lingua di legno, sebbene legno ecclesiale, di un Tettamanzi o di un Fisichella, che se la cavano mettendo al condizionale pastorale (nuovo modo verbale) ciò che fu indicativo dottrinale o imperativo evangelico, dimostra soltanto che in una certa mentalità gerarchica la chiesa amministra sé stessa più che i sacramenti. Forse ci siamo guadagnati l’impresa avventurosa di un pensiero postapostolico per un mondo postmoderno, ma non meritiamo la vecchia ipocrisia clericale.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.