Pablo Picasso, “Il bacio”. Olio su tela (1925). Musée National Picasso, Parigi

Divorziare all'evangelica

Marco Burini

Il diritto della chiesa va ripensato. Se l’indissolubilità è voluta da Cristo, non può essere una condanna. Don Albanesi, canonista callejero, su sinodalità e riforma.

Un canonista di periferia è un animale strano, un ossimoro vivente. Un cultore del diritto ecclesiastico te lo immagini frusciare nei corridoi dei sacri palazzi, non battere le strade di tossici e disadattati. Se poi questo prete di confine ha un tratto sornione e l’eloquio deciso, ti viene voglia di ascoltare quello che ha da proporre. Nientemeno che “Il sogno di una Chiesa diversa”, questo il titolo (per l’editrice Àncora) della lettera aperta di don Vinicio Albanesi a Papa Francesco. E’ interessante fare due parole con il patron della Comunità di Capodarco in questi giorni di sinodo. Per lui sinodo è la parola chiave di una riforma strutturale della chiesa, una forma di governo permanente e non un appuntamento straordinario. E a tutti i livelli: chiesa universale, particolare (conferenze episcopali, diocesi), parrocchiale. L’unica via d’uscita di fronte, come scrive, al “distacco tra ‘l’apparato ecclesiastico’ e la fede reale delle persone. Un apparato che rimane lontano, estraneo, diffidente se non oppositivo, a quanto le anime semplici e raffinate, vivono quotidianamente”. Albanesi è consapevole che “molta finezza giuridica dovrà essere utilizzata perché non si ritorni a una forma gerarchica piramidale (camuffata) o a un democraticismo, di impronta civile, che non ha senso nell’ambito della chiesa”. Perciò, scrive, “nessun appello a forme contestative di gallicanismo, febronianismo, a comunità di base o a presunte forme democratiche”: il sacramento dell’ordine e dunque il sacerdozio gerarchico non si discute, come ribadito dal Concilio Vaticano II, ma “il chierico è tale se è profondamente congiunto con il popolo di Dio”. E, invece, canoni alla mano, Albanesi dimostra come il diritto della chiesa parli ancora di “sudditi” e sia impregnato di “clericalismo, di maschilismo e di autoritarismo”.

 

Albanesi sostiene che una riforma giuridica è necessaria, non ci si può rimettere alla buona volontà dei singoli. Eppure, gli dico, il diritto canonico non fa più paura a nessuno, nemmeno ai preti (vedi caso pedofili): perché dovrebbe funzionare come veicolo di una rivoluzione ecclesiale? “E’ vero che il diritto canonico non è portatore né di novità, né di riforma – risponde – Ma l’organizzazione della chiesa, con le sue leggi di funzionamento, ha bisogno di regole. Ogni gruppo di persone ha bisogno di un funzionamento senza di cui il comportamento collettivo non riesce a essere, se non concorde, almeno orientato. Da non dimenticare poi che il codice di diritto canonico è ibrido: tratta grandi temi della fede (sacramenti, Scrittura, dogmi), materie miste (liturgia, potestà) e materie completamente laiche: si pensi alla determinazione della maggiore età o al computo del tempo che pure debbono essere regolati. Molta attenzione va quindi posta a che le materie di fede non siano confuse con le semplici regole giuridiche”.

 

Il fatto che non sia mai stata promulgata una legge fondamentale c’entra qualcosa? “La lex fundamentalis della chiesa non fu mai pubblicata perché la discussione era proprio sulla definizione della chiesa stessa; se popolo di Dio guidato dalla gerarchia o se una gerarchia che determina il popolo di Dio. La discussione è ancora aperta. Il Concilio parla di sacerdozio comune dei battezzati, ma tale sacerdozio è ancora ‘sottomesso’ alla gerarchia. L’armonia da trovare – prosegue Albanesi – è tra sacramento del battesimo, che è di tutti i cristiani, e il sacramento dell’ordine che può esistere solo se è in funzione del sacramento basale di appartenenza alla chiesa, il battesimo. Posso essere Papa, vescovo, parroco solo se sono in profonda comunione con il popolo dei battezzati, del quale sono chiamato a fare da guida. Le funzioni che vengono concesse con il sacramento dell’ordine hanno senso se sono in funzione con il sacerdozio dei fedeli. Invece è ancora troppo presente la sintesi della ‘societas perfecta’ il cui schema era quella del regno: c’è il re e ci sono i sudditi”.

 

Non ho capito bene, quindi, se attualmente c’è troppo diritto o troppo poco nella chiesa. “Il diritto esistente non è ancora sufficientemente evangelico nel senso che risente pesantemente della scienza giuridica dei popoli – spiega il canonista – Si ha così un diritto speciale che tanto speciale non è. I temi della colpa, del perdono, della tolleranza, della morale non possono essere semplicemente allineati con il diritto civile. Il diritto della chiesa oltre il foro esterno (fatti pubblici e dimostrabili) appella al foro interno (chiamato foro della coscienza). Se obbedisco o disobbedisco alla legge non posso fermarmi alla sola esteriorità ma debbo appellare al dovere morale che pone ogni singolo battezzato di fronte a Dio e non soltanto alla legge. Armonizzare l’esteriorità e l’interiorità è uno dei grandi problemi del diritto canonico. Non è possibile fermarsi alla pura esteriorità: la legge civile dice che se non dimostri che il tuo matrimonio è invalido, esso rimane valido. La legge della chiesa, invece, non si accontenta della sola dimostrabilità esteriore perché la propria coscienza, alla fin fine, appella a Dio stesso. Se per la legge degli uomini il matrimonio è valido, non è affatto sicuro che lo sia davanti a Dio”.

 

Ma il sinodo in corso va nella direzione di una sinodalità permanente? C’è un effettivo cambio di passo? “Papa Francesco sta rinnovando cariche e persone. Non è ancora arrivato alla riforma delle strutture, anche se nel suo governo si vedono già tracce di sinodalità. L’ultimo segnale è l’indicazione di far scrivere ai padri sinodali le conclusioni dell’assemblea. Comunque il processo di sinodalità è molto lungo e complesso: c’è solo da sperare che la coscienza della comunione, di cui tutti parlano, possa crescere fino ad arrivare a una vera riforma delle strutture”.

 

Leggendo il suo libro ho apprezzato la demistificazione della potestà ecclesiastica, ridotta ormai a feticcio. Però non mi è chiaro cosa ne pensa del potere, visto che lei critica nettamente la commistione chiesa-società che peraltro ha segnato la storia del cristianesimo, almeno in occidente, degli ultimi secoli. Ma può esistere un’istituzione, la chiesa, senza potere? E questa istituzione è in grado di riformarsi da sé, per di più dall’alto? E poi non è passato troppo tempo dal concilio perché ormai si possa sperare di applicarlo (ovvero: lo scenario è talmente cambiato, in questi cinquant’anni, che o se ne fa un altro o ci si rassegna a scomparire)? Di fronte alla raffica di domande don Vinicio non si scompone: “La dinamica del potere nella chiesa non può esistere perché la chiesa non è degli uomini ma di Dio. Gli uomini possono solo aderire alla verità di essere ‘servitori’ di un progetto che non è loro. La dinamica della chiesa è la santità. I grandi passaggi della riforma sono avvenuti perché qualcuno ha ricordato i principi evangelici in momenti che sembravano scomparsi: gli esempi medievali di Francesco e Domenico o quelli rinascimentali di Ignazio e Carlo Borromeo o quelli dell’Ottocento piemontese, a cominciare da san Giovanni Bosco, dicono che è possibile riportare a verità non il potere, ma il servizio. L’unica strada di riforma è il ritorno all’essenzialità del messaggio: tale invito riporta alla sostanza della missione della chiesa. Un processo che cambia nel tempo ma che rimane simile perché è la risposta a un invito che è venuto dall’alto”.

 

La parola sostanza mi fa tornare in mente la vecchia metafisica con cui qualcuno si ostina ad affrontare la realtà più viva. Nella classe dirigente ecclesiastica, con l’ausilio di qualche teologo asserragliato nella giungla, la legge naturale va ancora forte come puntello dell’indissolubilità matrimoniale, uno dei punti caldi del sinodo. Albanesi la prende alla lontana: “La riscoperta nel diritto naturale è avvenuta dopo le aberrazioni della Seconda guerra mondiale, la Shoah soprattutto. Ne è nata tutta una riflessione che ha portato alla Carta dei diritti dell’uomo dell’Onu. Di per sé, però, la legge naturale in filosofia del diritto è di tradizione cattolica, a partire da Tommaso. Dio è creatore e immette nel cuore dell’uomo i fondamenti dell’agire umano. A ben guardare gli stessi comandamenti, eccetto i primi tre, sono leggi di convivenza, una serie di indicazioni per la vita pacifica. Nella concezione medievale la legge naturale si identifica, almeno nella cultura occidentale, con il cristianesimo. Dopo l’illuminismo, però, entra in crisi e perde il riferimento trascendente: da allora la legge naturale, per molti giuristi, nasce come frutto del costume e della presa di coscienza, da parte dei governanti, degli usi del popolo; questo vale specialmente in campo economico”. Quindi non si può dire con assoluta certezza che l’indissolubilità dipende dalla legge naturale. “Molti canonisti sostengono che l’indissolubilità sia un’aggiunta voluta da Cristo, non qualcosa d’intrinseco al matrimonio – osserva il canonista – L’esempio classico viene dall’antropologia culturale: le tribù giovani, in fase di espansione, praticano e legittimano la poligamia perché cercano di procreare il più possibile. Quelli che gli autori classici chiamavano i costumi dei pagani. E a ben vedere oggi la legge è ridiventata pagana. Utero in affitto, fecondazione eterologa, eccetera: altro che legge naturale, oggi lo stato non fa che regolamentare le scoperte della scienza o le attitudini personali…”.

 

Che i due (e non più di due) siano una cosa sola, dice invece la Scrittura. “Sì, ma non dice: siate unici. Dice: siate uniti, cioè che ci si sia stabilità tra voi due”. Quindi è la dottrina cattolica, non la legge naturale, a esigere il matrimonio indissolubile. “Cosa che nessuna tradizione cristiana, né quella cattolica né quella ortodossa né quella protestante, ha mai messo in discussione. Neanche le cosiddette seconde nozze degli ortodossi smentiscono l’indissolubilità dell’unione. Ma la vera domanda è: cosa fare quando un matrimonio fallisce?”. C’è chi dice che la proposta di Kasper & Co. porta il divorzio in chiesa.

 

“Per niente. Kasper si fa piuttosto una domanda molto realistica: di fronte a un matrimonio che fallisce ci mettiamo sopra una pietra tombale o andiamo a vedere cosa succede? Kasper non mette affatto in discussione l’indissolubilità ma cerca di ragionare a partire dai fatti”. Un pragmatismo non sconosciuto alla chiesa, se è vero che il chierico ridotto allo stato laicale (si dice proprio così, “ridotto”) viene dispensato dal vincolo. “Tu sei sacerdote in eterno, recita la formula classica, eppure quando un prete lascia il ministero, al termine di una apposita istruttoria canonica di tipo amministrativo, viene dispensato dagli obblighi derivanti dall’ordinazione; dunque si interrompono gli effetti del sacramento. Eppure uno spretato può assolvere una persona in articulo mortis”. E’ il celebre finale del “Diario di un curato di campagna”.

 

E perché, chiedo, la stessa dispensa non potrebbe valere per un matrimonio che fallisce? “Perché i preti per sé hanno trovato la soluzione, mentre agli altri impongono gravami…”. Comunque mi pare di capire che la proposta Kasper sia di questo tipo. “Che non annulla il matrimonio, casomai gli effetti. Faccio sempre il caso del coniuge innocente. Io sono una persona sposata e all’improvviso vengo abbandonata: a che cosa devo restare fedele, se il matrimonio è un patto a due? Resta fedele al patto, mi viene detto. Ma se i ministri del matrimonio sono gli sposi, come faccio a restare fedele a un patto in cui manca l’altra metà? Stesso discorso quando, nelle cause di nullità, c’è il dolo: ad esempio l’errore di persona, oppure la scoperta che il partner è omosessuale. Anche qui la domanda è: sono fedele a chi? Quelli che difendono il vincolo rispondono: al sacramento. Ma la materia del sacramento matrimonio sono proprio i due sposi!”.

 

[**Video_box_2**]Anche nel caso del coniuge colpevole, cioè colui che rompe il patto, le cose non sono scontate. “Ammesso che ci sia tradimento e abbandono da parte di uno dei due, questo peccato è eterno oppure il colpevole ha la possibilità di essere riaccolto, se non dall’altro coniuge almeno dalla comunità?”, domanda Albanesi. Perciò il problema non va spostato su piani metafisici, arroccandosi su presupposti giuridici incerti. Il punto vero è comprendere cosa succede quando un patto salta, sia per chi lo subisce sia per chi lo rompe. “Come canonista dico che l’innocente ha diritto a condurre una seconda vita perché non ha la grazia sufficiente per essere celibe. Tu, chiesa, mi condanni a essere celibe perché sono stato abbandonato, cioè vengo punito per un’ingiustizia che ho subito. E’ aberrante!”. Ma gli inflessibili custodi della Dottrina scongiurano di “permanere nella verità”, costi quel che costi. “Sono i nuovi tuzioristi: obbligano a una legge più severa della legge ordinaria. Un’oppressione bella e buona. Per amore della giustizia costoro finiscono per commettere un’enorme ingiustizia”.

 

Entrando in alcune fattispecie, il canonista di periferia ne mette in luce l’ambiguità. “Com’è noto, il matrimonio rato non consumato può essere sciolto per dispensa del Papa. Ma c’è qualcosa che non mi torna: prima si dice che il matrimonio si fonda sul consenso delle parti, poi siccome l’atto procreativo non è avvenuto, si dispensa”. Stesso discorso per il privilegio paolino, cioè la possibilità di sciogliere un matrimonio “in favore della fede” nel caso che, di due coniugi non battezzati, solo uno riceva successivamente il battesimo e l’altro rifiuti di convertirsi o almeno di convivere pacificamente. “Ma non si dice sempre che il matrimonio è un consenso tra persone adulte? – osserva Albanesi – Tutte queste eccezioni, in realtà, mettono in luce che in certi casi il Sommo pontefice ha il potere di dispensare. Allora perché in altri no? Si noti bene, il Papa interviene con un atto di grazia e non in forza di un’invalidità. Qui non c’entra la nullità, è una grazia; viene sciolta cioè un’unione che a tutti gli effetti era ritenuta valida”.

 

Per quanto riguarda la commissione per snellire le cause di nullità appena istituita da Francesco, Albanesi è perplesso. “Si finisce in un terreno un po’ infido. Ricorre ai tribunali ecclesiastici il dieci per cento delle persone separate in un anno. Una prassi più celere può far aumentare il numero delle situazioni esaminate. Ma credere che si risolvano i problemi dei divorziati risposati con le cause di nullità è un aiutino, non la soluzione”. In ogni caso, don Vinicio sostiene che “avere intenzione di stare uniti tutta la vita è un atto eroico, una grazia, invece stare uniti e procreare è un atto ordinario, semplice. Infatti il consenso che si esprime al momento del matrimonio è frutto di innamoramento e di progetto. Credere invece che quel consenso leghi per tutta la vita presuppone un atto di fede perché gli sposi, davanti a Dio e a tutta la comunità, si impegnano a rimanere uniti nella buona e nella cattiva sorte, per sempre. Solo invocando Dio si può rimanere fedeli a quel consenso nel caso le cose andassero male: la differenza appunto che esiste tra un contratto umano e il sacramento. Infatti il diritto civile, quando la convivenza va male, non va a toccare la validità di quel consenso, ma interrompe gli effetti civili del matrimonio, benevolmente o per colpa”.

 

Ma in fin dei conti il matrimonio cristiano è un contratto o una comunione di vita? “Fino a poco fa – osserva Albanesi – la liturgia del matrimonio aveva una formula del tutto laica che non citava né la chiesa né Cristo né la grazia. Era semplicemente un patto tra due persone alla presenza di un testimone, il prete. Non c’era niente di sacro. ‘Io prendo te come mio sposo e io prendo te come mia sposa’, esattamente come il rito civile. Oggi è diventato fondamentale interrogarsi se gli sposi, che pure celebrano le nozze in chiesa, hanno coscienza e maturità di fede sufficienti per aderire consapevolmente e liberamente al sacramento del matrimonio. Lo ricordava Benedetto XVI in un celebre discorso alla Rota Romana in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario il 26 gennaio 2013”. Due settimane prima di dimettersi.

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