Giorgio Napolitano e Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi, Nap. e la lotta parallela contro “gli epigoni del niente”

Claudio Cerasa

Botte, convergenze, sintonie. Sfida al partito delle procure e alla vecchia ditta. Dal caso Legnini all’articolo 18.

Roma. L’elezione di Giovanni Legnini ai vertici dell’organo di autogoverno dei magistrati italiani, ovvero il Csm, e il sostanziale superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, rottamato lunedì sera dalla direzione del Pd in diretta streaming, arrivano in un momento politico molto particolare in cui il percorso del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e quello del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, presentano una serie di punti di contatto che in qualche modo prescindono persino dal destino di questa legislatura. Le questioni da analizzare, che legano in modo profondo e inaspettato la dottrina renziana e quella napolitaniana, sono sostanzialmente due e riguardano due battaglie sulle quali il capo dello stato e il capo del governo si sono ritrovati a parlare una lingua fondamentalmente coincidente: giustizia e ditta. Sul fronte della giustizia, c’è, da parte di Renzi e di Napolitano, una sostanziale e comune analisi storica rispetto agli errori commessi negli ultimi vent’anni dalla vecchia sinistra conservatrice sulle questioni legate alla giustizia: la spaventosa subalternità culturale mostrata in molte occasioni dai campioni del progressismo nei confronti del partito dei giudici; il tentativo costante e drammatico di trasformare il magistrato in un inviolabile custode del moralismo; l’impotenza ostentata dalla vecchia guardia della sinistra rispetto alla regolare violazione dei princìpi del garantismo; il silenzio strumentale di alcuni vecchi campioni della ditta rispetto alla crescita incessante del fenomeno della spettacolarizzazione della giustizia; la complicità mostrata da alcuni storici leader della sinistra rispetto alla diffusione delle pratiche relative al processo mediatico; e l’indisturbata tendenza di una parte della magistratura a specializzarsi nel combattere i fenomeni piuttosto che i reati. Napolitano, sia durante il primo settennato sia all’inizio del suo secondo settennato, ha provato in tutti i modi a lanciare, con le buone o con le cattive, segnali utili a indicare l’unica direzione possibile per una sinistra degna di essere chiamata riformista. E sia da capo dello stato sia da capo del Csm ha mollato in varie occasioni sagge sberle al partito delle procure (anche a costo di portarne alcune, come quella di Palermo, con cui le sberle sono da anni tanto affettuose quanto reciproche, di fronte alla Corte Costituzionale).

 

Il senso del messaggio di Napolitano – messaggio a volte indiretto e altre volte molto più diretto – è sempre stato quello di promuovere un meccanismo di necessario ritorno al primato della politica e su questo tema il presidente della Repubblica ha trovato in Renzi un allievo sorprendente. Il caso Legnini, eletto ieri come vice proprio di Napolitano al Consiglio superiore della magistratura, è quello più recente e forse anche più clamoroso: mai un membro dell’esecutivo era passato direttamente e senza passare dal via dal governo alla guida del Csm e mai come in questa elezione dei vertici del Csm il concetto del primato della politica è stato imposto quasi come se fosse una questione culturale (e se pensate che Legnini, oltre che essere nel governo, è anche avvocato, è anche garantista, è anche lontano anni luce dalle zozzerie del partito delle procure, capirete perché oggi le gazzette delle procure non spenderanno parole di miele per il nuovo capo del Csm). Il caso del Csm è però solo l’ultimo di una lunga lista di iniziative politiche portate avanti dal presidente del Consiglio quasi a voler sfidare il mondo della magistratura e in questo ragionamento c’entra anche, se vogliamo, l’articolo 18.

 

Prima di arrivare all’articolo 18 ci sono molti casi di scuola in cui Renzi anche simbolicamente ha cercato di dimostrare di essere lontano anni luce da quella politica che aveva contribuito con straordinaria sapienza e grande lungimiranza a sovrapporre l’immagine della sinistra a quella della magistratura. Renzi è il presidente del Consiglio che ha difeso a oltranza alcuni indagati di lusso (pensate a Claudio Descalzi, capo dell’Eni; pensate all’attuale candidato del Pd alla conquista dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini; pensate all’attuale governatore dell’Abruzzo, Luciano D’Alfonso, candidato in regione nonostante alcuni processi a suo carico non si siano ancora conclusi; pensate ai membri del governo Barracciu, Del Basso de Caro, Bubbico e De Filippo, tutti indagati prima di aver giurato per Renzi; pensate anche al caso di Vasco Errani, ex governatore dell’Emilia Romagna, condannato in primo grado e difeso a spada tratta da Renzi anche a costo di delegittimare un provvedimento della magistratura). Renzi è il presidente del Consiglio che ha promesso di inasprire nella prossima riforma della giustizia il capitolo relativo alla responsabilità civile dei magistrati (ed è lo stesso che quando può stuzzica gli stessi magistrati sulla storia delle ferie). Renzi è il presidente del Consiglio che ha fatto piazza pulita dei consiglieri di stato in diversi luoghi chiave del governo (andando anche al di là della dottrina Napolitano, chiedere per credere a Donato Marra, consigliere di stato, che ha costretto il premier a rivedere una norma inserita in un primo momento nel decreto sulla Pubblica amministrazione che avrebbe reso incompatibile il ruolo di magistrato con quello di funzionario di stato).

 

E Renzi, dettaglio non secondario, è lo stesso segretario del Pd che ha scelto, caso più unico che raro nella storia recente della sinistra, di affidare il ruolo di responsabile giustizia del Pd non a un solito e rassicurante magistrato ma a un più minaccioso avvocato (si chiama David Ermini). In questa cornice – e qui arriviamo anche al più complesso ragionamento sulla ditta – l’articolo 18 c’entra nella misura in cui Renzi (lo ha detto domenica sera da Fabio Fazio, lo ha ripetuto lunedì sera in diretta streaming, lo ripeterà nei prossimi giorni in tutte le occasioni che vi saranno) ha specificato che non può essere un giudice a decidere la politica industriale portata avanti da un imprenditore e che se un imprenditore è costretto dunque a ridimensionare il suo organico per ragioni economiche non è corretto che incontri sulla sua strada un giudice pronto a giudicare con suoi criteri spesso discrezionali se le condizioni economiche sussistano oppure no. Ma intorno all’articolo 18 – e soprattutto intorno alle conseguenze della rottamazione di un tabù ideologico dietro al quale la sinistra conservatrice ha nascosto per molti anni la sua faccia – la coppia Renzi e Napolitano ha visto concretizzarsi in modo plastico la fine di una vecchia ditta post comunista verso la quale, seppur con modi e con toni diversi, il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica hanno sempre mostrato la loro profonda non sintonia. Renzi, ovviamente, con lo sguardo barbarico da rottamatore assettato di sangue.

 

[**Video_box_2**]Napolitano, da parte sua, con lo sguardo lontano ma insieme partecipe di chi nella sua vita, anche prima di arrivare al Quirinale, ha speso molte energie per indicare a una certa sinistra incatenata l’unica strada possibile per non andare a sbattere contro il muro della modernità. “Il finale – suggerisce Emanuele Macaluso, ex dirigente del Pci, amico fraterno del presidente della Repubblica – potrebbe essere uguale, ed è un finale che ci mostra la fine poco gloriosa di una vecchia classe dirigente della sinistra, ma in realtà i film che stiamo osservando sono due. Da una parte c’è il Rottamatore, che, in modo un po’ gradasso anche se efficace, pensa più alla sua storia politica che alla storia della sinistra. Dall’altra parte c’è invece il presidente, che, con spesso senso di amorevole angoscia, osserva quello che avviene nel mondo della sinistra con un occhio più disincantato e più legato al contesto storico generale. Di fronte a loro però si presenta uno scenario desolante. Di una sinistra che non riesce a ricomporsi del tutto. E non c’è dubbio che in questo scenario, di fronte ai nuovi leader, gli epigoni del niente – dice Macaluso con un sorriso – non aiutano il Partito democratico a ricomporsi come invece potrebbe”.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.