Matteo Renzi (foto LaPresse)

Le tre parole di Renzi per rivoluzionare la sinistra e riabilitare il mercato

Marco Valerio Lo Prete

"Diritto di licenziare". Cambia il senso antropologico del rapporto di lavoro, se stiamo al rivolgimento renziano.

Roma. “Se l’imprenditore deve fare a meno di alcune persone, siccome l’imprenditore non è uno cattivo, deve avere anche il diritto di lasciare a casa alcune persone”. Lo ha detto domenica sera il presidente del Consiglio. E come se la frase in sé non fosse stata abbastanza dirompente, stava per partire pure un timido applauso negli studi di “Che tempo che fa”, padrone di casa Fabio Fazio, su Rai 3, figurarsi. Applauso coperto però dal seguito del ragionamento di Matteo Renzi: “L’importante è che lo stato non lasci a casa nessuno”. La sequenza renziana, per il dibattito mainstream sul lavoro in Italia, è una bomba. Non soltanto perché viene dal leader del principale partito di sinistra. Certo, ieri sul Mattinale del forzista Renato Brunetta si lamentavano scherzosi: “Il premier ci ha rubato il pensiero”. Ma perfino il Polo berlusconiano, quando nel 2000 si avvicinava il referendum dei Radicali sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, disse che “il messaggio” da “trasmettere” era che “l’obiettivo non è tanto la libertà di licenziare, quanto e soprattutto la libertà di assumere”. Perché il “diritto di licenziare”, in quanto tale, era finora bandito dal discorso pubblico. Gli unici a poterlo evocare, ovviamente a mo’ di spauracchio, finora, erano stati i fautori dell’articolo 18 e del reintegro obbligatorio del lavoratore licenziato, Cgil in primis (che soltanto ieri, dopo 44 anni, ha detto di essere “pronta” ad applicare l’articolo 18 anche ai suoi dipendenti).

 

“Diritto di licenziare” rimane però, innanzitutto, una formula che parla alla sinistra e al suo popolo. “Renzi sulla riforma del mercato del lavoro si sta giocando la partita della vita – dice al Foglio Angelo Panebianco, politologo dell’Università di Bologna – O i suoi vari oppositori lo ridimensionano, magari riuscendo così pure a farlo fuori, oppure difficilmente riusciranno a fermarlo in futuro”. Rifiutando finora la classica concertazione con le parti sociali, anche se ieri Renzi si è detto disposto a “riaprire la Sala verde”, “dicendo la verità sul conservatorismo della Cgil e sugli interessi che essa difende a scapito di altri interessi”, osserva l’editorialista del Corriere della Sera, “il presidente del Consiglio sta toccando l’identità stessa della sinistra italiana”.

 

Per Panebianco Renzi va valutato sulle realizzazioni pratiche, e sul punto il giudizio è sospeso, ma anche sulle innovazioni culturali: “Davvero, se tirasse dritto sull’articolo 18 e sulla riforma del lavoro, come sembra pronto a fare, si potrà dire che sta calcando le orme di Tony Blair. Il leader riformista inglese negli anni 90 sottrasse definitivamente il Labour ai sindacati. Renzi promette di fare la stessa cosa. Mai come oggi, infatti, è evidente che la minoranza del Pd è diventata un prolungamento della Cgil, a differenza di quando tutte le organizzazioni di area erano un prolungamento del Pci. Quella sinistra, che dopo le primarie perse aveva potuto continuare a fare buon viso a cattivo gioco, adesso sta lottando per la sua stessa esistenza”. Sdoganando il “diritto a licenziare”, secondo Panebianco, “Renzi sta compiendo anche una rivalutazione drastica del ruolo dell’impresa al cospetto della sinistra. Se vince, e la legislazione cambia, muteranno anche gli atteggiamenti degli imprenditori e l’innovazione sarà reale”.

 

Non c’è soltanto la battaglia a sinistra, però. Più in generale, le argomentazioni utilizzate da Renzi per superare l’articolo 18 – il diritto al reintegro rimarrà per i casi di licenziamento discriminatorio, ovviamente, e da ieri anche per quello “disciplinare” – hanno esplicitamente riabilitato il ruolo del mercato.

 

Dire che “l’imprenditore non è uno cattivo”, e che le sue ragioni meritano più ascolto di quelle di un giudice del Lavoro sui licenziamenti individuali, vuol dire ribaltare l’approccio degli ultimi 44 anni. I licenziamenti individuali, anche per ragioni economiche, finivano in tribunale. E se il giudice non ravvedeva la “giusta causa”, scattava il reintegro. La sola ipotesi di un finale simile, secondo imprenditori e giuslavoristi, ha profondamente segnato – a livello antropologico, direbbe qualcuno – i datori di lavoro. Non solo: la vertenza in tribunale, dall’esito mai certo, ha impedito soprattutto agli stranieri di “calcolare” a priori gli ipotetici costi di un investimento in Italia. Ora Renzi riconosce apertis verbis che il capitalismo non è solo una pecora da tosare, come voleva Olaf Palme e la vulgata socialdemocratica. La pecora va pasciuta e fatta figliare, in una prospettiva “liberale” come quella evocata ieri dal segretario del Pd, altrimenti col tempo ci sarà sempre meno lana a disposizione.

 

Il presidente del Consiglio riconosce dopo oltre sessant’anni quanto disse esplicitamente un liberista di sinistra della prima ora, Ernesto Rossi, secondo cui “se vogliamo conservare il meccanismo di mercato e intendiamo non rinunciare ai vantaggi del progresso, dobbiamo pagare il relativo prezzo”. Chi pagherà questo prezzo? L’impresa ha il “diritto di lasciare a casa”, se necessario, ma lo stato no, ha aggiunto Renzi. Da qui discende lo scambio che il governo propone all’opinione pubblica. Non soltanto la cancellazione dei “co.co.pro.”, contratti di collaborazione a progetto, che finora hanno fornito una via di fuga a basso costo (no ferie, no Tfr, meno contributi) rispetto ai contratti a termine. Ma soprattutto l’impegno a trovare risorse e meccanismi adeguati per un welfare più universalistico, a carico di tutti. Così si paga il “prezzo” del “dinamismo economico”, aggiungeva lo stesso Rossi: “Rifiutarsi di pagare questo prezzo significa rinunciare al progresso. Quello che si può e si deve fare è lenire le sofferenze dei gruppi particolarmente colpiti dal dinamismo economico, ripartendone il costo su tutta la collettività che ricava vantaggio dall’aumento del reddito nazionale, ed estendendo il campo dei servizi pubblici per garantire un minimo di vita civile anche a coloro che non riescono a guadagnarsi un salario sufficiente per vivere”. Le risorse per fare ciò sono ancora da trovare, il “diritto di licenziare” varrà solo per i neoassunti, ma il mercato ha ripreso quantomeno il suo posto nel dibattito pubblico, rientrando dalla finestra e “superando da sinistra l’articolo 18”, come ha rivendicato ieri Renzi.

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