Operatori dell'Organizzazione mondiale della sanità in Sierra Leone (foto AP)

Ebola, lo Stato islamico e le inutili sceneggiature nostrane da B-Movie

Giordano Masini

Una donna parla al cellulare, di fronte alla sua abitazione. Lo sguardo perso nel vuoto, una mano sui fianchi, la pettinatura tutto sommato curata. La didascalia della foto ci racconta che quella donna sta aspettando gli uomini che verranno a portare via un cadavere dalla sua casa.

Una donna parla al cellulare, di fronte alla sua abitazione. Lo sguardo perso nel vuoto, una mano sui fianchi, la pettinatura tutto sommato curata. La didascalia della foto ci racconta che quella donna sta aspettando gli uomini che verranno a portare via un cadavere dalla sua casa. E’ una delle tante foto che John Moore ha scattato per Getty Images a Monrovia, capitale della Liberia, provincia di ebola. Ed è una delle foto che meglio rende l’idea della natura dell’epidemia e dei veicoli del contagio: la donna, in attesa dei monatti come la mamma di Cecilia nei Promessi Sposi, è in piedi, ma i suoi piedi affondano nell’acqua fangosa. Dalla stessa acqua emerge la sua casa, poggiata sopra una struttura di palafitte, e le pareti sono di lamiera ondulata. Quattro copertoni usati conducono alla porta, ma non è comunque possibile evitare il contatto con l’acqua per raggiungerla. E l’acqua non è solo fiume, o laguna, o palude. E’ anche e soprattutto fogna a cielo aperto.

 

Un’altra foto inquadra dall’alto lo slum di West Point: da una parte l’oceano, dall’altra l’ultima propaggine dell’enorme area paludosa che è parte integrante della città, e che da West Point si estende ancora per chilometri verso est, circondata dalle baracche dei quartieri più poveri. Qui i tetti di lamiera sono ancora più fitti, e non si riescono a riconoscere nemmeno le strade: una distesa grigiastra indistinta, nella quale Moore si è immerso per testimoniare cosa sia davvero ebola, e cosa siano i luoghi dai quali oggi sembra impossibile estirparlo.

 

E’ l’urbanizzazione, questo tipo di urbanizzazione, secondo un articolo apparso all’inizio di agosto su New Scientist, il principale vettore dell’epidemia di ebola del 2014. Il tasso di urbanizzazione africano è stato il più alto del pianeta negli ultimi vent’anni, e la popolazione urbana del continente è destinata a crescere dal 36 percento attuale al 60 percento nel 2050, secondo le stime della African Development Bank. Fino a oggi i focolai, dal primo caso documentato negli anni ’70, avevano preso di mira solo piccoli villaggi isolati, ed era stato proprio l’isolamento delle comunità rurali ad impedirne la diffusione massiccia. ebola, è la prima cosa da tenere a mente, non viaggia volentieri.

 

[**Video_box_2**]E’ sulla percezione del rischio distorta, più che sul pericolo reale, che si fondano le minacce attribuite allo Stato islamico di diffondere ebola in Occidente. Una percezione del rischio fondata più sul rapporto tra contagiati e decessi – ebola ha un tasso di mortalità elevatissimo – che sulla facilità del contagio. Il virus ebola non si trasmette per via aerea, come il morbillo o l’influenza, ma attraverso il contatto diretto con i fluidi corporei dei malati. Mentre le complicazioni del morbillo, una malattia per la quale qualcuno sostiene l’inutilità dei vaccini, mietono nel mondo decine di migliaia di vittime ogni anno, ebola ha fino ad oggi ucciso, dal primo caso documentato meno di 40 anni fa, poche migliaia di persone. A differenza di quanto comunemente siamo portati a credere, in una epidemia la velocità e la rapidità del contagio sono fattori di rischio molto più rilevanti del tasso di mortalità.

 

L’enorme pantano che circonda Monrovia, usato al tempo stesso come fogna, come cortile e come piazza, in una megalopoli in cui non esiste un’assistenza sanitaria degna di questo nome (guardare, per credere, le fotografie di John Moore), è il veicolo migliore per garantire a ebola l’ambiente ideale per diffondersi, per mietere vittime e per rendere difficile il lavoro ai coraggiosi operatori sanitari che lavorano in quell’inferno. Operatori che si trovano spesso a far fronte a casi di isteria collettiva, durante i quali sono gli stessi medici ad essere accusati di portare la malattia. In qualche caso sono stati cacciati, in altri le loro strutture sanitarie sono state prese d’assalto e i cadaveri trafugati. Succedeva nella Milano flagellata dalla peste descritta da Manzoni, succede oggi a Monrovia, a FreeTown (Sierra Leone) e nelle altre “città chiuse” della costa. Ma la situazione in Occidente sarebbe ben diversa, e i nostri sistemi sanitari sono attrezzati per confinare in poco tempo un virus che si trasmette con queste modalità. E’ per questo che alcuni operatori sanitari occidentali contagiati sono stati riportati a casa a curarsi - alcuni di loro, purtroppo, a morire. La realtà è già abbastanza catastrofica così com’è, e davvero non si sente la necessità di costruirvi attorno sceneggiature da B-Movie, come tentano di fare i terroristi dello Stato islamico e alcuni propagandisti di casa nostra.

Di più su questi argomenti: