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Il Regno è Unito

Ottenuto il “no” in Scozia, ora Cameron si butta sulla “questione inglese”

Paola Peduzzi

Il premier dice che manterrà le promesse, ma all’interno di una maggiore autonomia di tutti. Il messaggio all’Ukip.

Milano. Il sollievo, a Londra, è arrivato ieri mattina all’alba, quando il “no” al referendum scozzese è stato confermato ufficialmente, con un ampio margine (55,3 per cento) e la battaglia per l’indipendenza è finita, con molti ragazzi – potevano votare per la prima volta anche sedicenni e diciasettenni – avvolti nella bandiera scozzese, in lacrime. Il first minister scozzese, il coriaceo Alex Salmond che pure ha fatto una campagna referendaria bella e appassionata, si è dimesso: il suo mandato finirà a novembre, quando si dovrà decidere il leader dello Scottish National Party (e tutti guardano alla sua vice, la robotica Nicola Sturgeon), ma durante l’annuncio dell’addio Salmond non ha dimenticato di rilanciare la causa indipendentista, “il nostro sogno non morirà mai”.

 

Il tormento scozzese si è chiuso nelle urne, dopo un paio di settimane di apnea in seguito a un unico sondaggio (pubblicato dal Sunday Times di Rupert Murdoch, che ha il cuore dalla parte degli indipendentisti scozzesi) che ha dato il “sì” in vantaggio, scatenando una reazione di emergenza da parte di tutti, conservatori, laburisti e liberal-democratici uniti in una delle campagne più abborracciate di sempre. Ma subito archiviata la questione scozzese, con frasi di circostanza molto affettuose e la voglia, soprattutto dei laburisti, di dimenticare in fretta l’ansia, si è aperto un altro fronte, che è quello inglese. Lo ha introdotto il premier conservatore, David Cameron, il più sollevato di tutti: si è risparmiato l’umiliazione di perdere per strada un pezzo di Regno, e per questo deve ringraziare gli abitanti delle meravigliose campagne scozzesi che hanno votato “no” decisi, perché fosse stato per le grandi città, Glasgow e Dundee in testa dove il sì ha vinto bene (Edimburgo è più londinese di Londra: non conta), lo schiaffone ai Tory a lungo sognato in nome di uno strano socialismo e di un deciso antiliberismo sarebbe arrivato sonoro. Su Twitter il premier ha scritto: “Abbiamo ascoltato la voce della Scozia e ora devono essere ascoltate anche le voci inglesi, che sono milioni”.

 

E’ stato questo il baricentro politico del discorso della vittoria che ha tenuto il premier ieri mattina sui gradini davanti a Downing Street: la devolution promessa agli scozzesi in questi giorni di panico – la “Devo-max” – sarà garantita, più libertà fiscale e politica, ma all’interno di un accordo istituzionale più ampio che di autonomia anche agli altri: su tasse, spesa pubblica e in generale sul budget a Westminster dovrebbero quindi essere soltanto i parlamentari inglesi a decidere (questo porrebbe fine anche alla possibile carriera di uno scozzese come cancelliere dello Scacchiere, ridacchiano molti, e sarebbe invero un’inversione culturale grandiosa).

 

[**Video_box_2**]Come ha sottolineato Patrick Wintour sul Guardian, Cameron era stato ben attento a non tirare fuori il dettaglio, mentre prometteva alla Scozia tutta la devolution immaginabile, e nemmeno nel “giuramento al popolo scozzese” vergato sul Daily Record dal premier assieme al leader laburista, Ed Miliband, e a quello liberal-democratico, Nick Clegg, ve n’era menzione. Ma la questione inglese era già nell’aria – lo è a dire il vero da quando Nigel Farage, leader dell’Ukip, si è trasformato da simpaticone con la birra a leader politico.

 

La vittoria del “no” è, numericamente parlando, una vittoria del Labour, per quanto Ed Miliband verrà ricordato soprattutto per aver ignorato sostanzialmente il referendum, salvo poi correre ai ripari ed essere quasi aggredito durante un comizio dai sostenitori del “sì”. Con l’autonomia inglese però i Tory potrebbero avvantaggiarsi sui laburisti, che a Westminster hanno una compagine scozzese molto solida (i Tory hanno un unico rappresentante) che non potrebbe però votare su materie importanti come quelle economiche.

 

L’effetto boomerang - Imponendo una questione inglese, Cameron soprattutto considera la possibilità di combattere Farage sul suo stesso campo, che è una delle sue priorità elettorali in vista delle elezioni che si tengono nel maggio del 2015. L’Ukip ha deciso di adottare una strategia del cannibalismo nei confronti dei Tory, e già alcuni conservatori sono finiti nella trappola. Cameron deve strappare a Farage il monopolio sull’“inglesità”, e questo è un ottimo inizio, assieme al referendum, ormai promesso, sull’adesione all’Unione europea. Gli scozzesi, fiutato il guaio, si sono già ribellati: ci promettete più autonomia e finisce che non abbiamo più voce in capitolo a Westminster? Sono gli effetti collaterali dell’indipendenza richiesta e mancata: corre il rischio di trasformarsi in isolamento.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi