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Idee per non sprecare l'Expo

Alessandro Sidoli

La comunità scientifica internazionale è concorde nel ritenere gli organismi geneticamente modificati come salubri per gli uomini, gli animali e l’ambiente. Ben venga Expo 2015, anche come occasione per discutere della questione delle biotecnologie in campo agroalimentare senza preconcetti ideologici.

Al direttore - Sto seguendo con grande interesse il recente dibattito sollevato dal Foglio sul tema degli Ogm (Organismi geneticamente modificati) nel contesto di Expo 2015 e, in qualità di presidente dell’Associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie, che fa parte di Federchimica, vorrei dare anche il nostro contributo al dibattito, che ritengo opportuno anche alla luce dell’intervento del ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina.

 

Se ho compreso bene, egli afferma che nel corso di Expo 2015 ci sarà certamente spazio per affrontare in modo franco il tema degli Organismi geneticamente modificati, alla luce della presenza dei principali produttori, ma in Italia non sarà comunque possibile coltivarli. Insomma, se davvero ho compreso bene il punto di vista del ministro, che in questo non si discosta da chi l’ha preceduto – a parte il ministro De Castro, non a caso, dal mio punto di vista, l’unico davvero competente in materia, curricula alla mano – se ne può parlare ma tanto la decisione del governo italiano non è destinata a cambiare. Se non è pregiudizio ideologico, ci si avvicina molto.

 

L’Italia, come sappiamo tutti, è il paese dei prodotti tipici: 4.700 specialità regionali che rendono l’Italia leader nel turismo di gusto. E’ giusto conservare questo patrimonio enogastronomico? Certamente. E’ doveroso! Ciò che non è giusto è metterlo in contrapposizione con l’innovazione agroalimentare, in particolare con quella biotecnologica.

 

Cominciamo col dire che il naturale in agricoltura non esiste. Quasi niente di ciò che mangiamo esiste allo stato naturale. La frutta e la verdura che portiamo sulle nostre tavole hanno subito secoli di modificazioni genetiche casuali, fino a quando gli scienziati nella seconda metà del secolo scorso non hanno cominciato a modificare geneticamente in modo mirato i vegetali, attraverso sostanze chimiche mutagene. Il pompelmo rosa, per esempio, che oggi troviamo abbondantemente nei negozi di frutta e verdura, è proprio il risultato di uno di questi esperimenti.

 

Certo si potrebbe obiettare che i prodotti modificati geneticamente non hanno legami storici o culturali con l’Italia, che basa parte notevole della propria economia agroalimentare sull’identità e sulla varietà dei prodotti locali. Ma un occhio scevro da pregiudizi constaterebbe come in Italia non ci sarebbero pomodori, patate, mais, zucchine, melanzane e kiwi, se avessimo voluto preservare i nostri legami storici e culturali. Ma non solo, molti prodotti tipici italiani sono a rischio estinzione a causa di virus e funghi che decimano i raccolti. La biotecnologia è proprio la chiave per preservare questo nostro patrimonio: si pensi al pomodoro San Marzano, al melo della Val d’Aosta, a importanti vitigni come l’Aglianico, il Nero d’Avola e il Barbera nell’Oltrepò pavese. Se governata con intelligenza, la biotecnologia consentirebbe persino di recuperare le tracce della diversità genetica andata persa negli ecosistemi agrari moderni attraverso l’isolamento di geni presenti nei milioni di campioni conservati nelle stazioni agricole sperimentali.

 

Se non bastano identità e cultura a convincere delle ragioni contro gli Ogm, si punta alla salute e quindi al tema della sicurezza alimentare. Ebbene, decine e decine di studi hanno confermato negli anni che gli alimenti geneticamente modificati sono sicuri per la salute pubblica. La comunità scientifica internazionale è concorde nel ritenere gli organismi geneticamente modificati come salubri per gli uomini, gli animali e l’ambiente.

 

Diciamo le cose come stanno: la questione non è di salute pubblica o di tradizione agroalimentare. La questione è economica, oltre che di posizionamento ideologico tecnofobo e anti-scientifico. Ovvero, vi sono grandi interessi commerciali che non hanno alcuna convenienza alla diffusione delle biotecnologie agroalimentari, perché si toccherebbero rendite di posizione consolidate e margini di guadagno elevati.

 

Allora entra in gioco la nostra visione di sviluppo per i prossimi decenni, che non riguarda più solo le agro-biotecnologie, ma tutti i settori innovativi. Vogliamo davvero disperdere il nostro immenso patrimonio di ricerca e di innovazione, che rappresenta una chiave fondamentale per assicurare alla nostra economia la capacità di competere e il mantenimento dell’alto tenore di vita raggiunto a beneficio delle giovani generazioni? Gli investimenti nell’innovazione agricola oggi relegano non solo l’Italia, ma forse l’Europa intera, ai margini del pianeta. Stiamo perdendo know-how e capacità progettuale. Gli investimenti – e purtroppo i nostri ricercatori, a cui viene negato per legge un futuro nel nostro paese – vanno verso le Americhe o l’Asia. Non può essere una consolazione che l’Italia oggi non è il solo paese europeo a vietare la coltivazione degli Ogm. Tra l’altro da noi anche la sola sperimentazione in campo è proibita.

 

Abbiamo perso un patrimonio enorme di conoscenza pubblica in tema di agro-biotecnologie. Il no pregiudiziale agli Ogm si è tradotto di fatto in un ritardo culturale enorme dell’Italia. Inoltre non è più sostenibile economicamente, come testimoniamo le prese di posizione di Confagricoltura e di molte altre associazioni di agricoltori e di imprese zootecniche.

 

[**Video_box_2**]Oltre a tutto ciò, oggi quando parliamo di Ogm non intendiamo soltanto prodotti alimentari che poi andranno nella filiera zootecnica o sulle nostre tavole di consumatori, ma di varietà di piante da utilizzare come materia prima per la produzione di bioprodotti di seconda generazione, come bioetanolo, bioplastiche e intermedi per vari processi industriali. Un’indagine, svolta qualche anno fa dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza per censire le piante geneticamente modificate attualmente in fase di verifica sperimentale e di rilascio, consente di riconoscere distinti settori applicativi, che vanno dal farmaceutico, alla chimica verde, fino al risanamento ambientale.

 

Parliamo di sviluppo economico, di creazione di nuovi posti di lavoro e di sostenibilità ambientale. Di come affrontare le sfide che abbiamo davanti a noi: con una popolazione mondiale destinata a raggiungere i 9 miliardi nel 2050 e con l’aspettativa di vita che si allunga, crescerà la domanda di medicinali e soprattutto di cibo (la Fao stima l’aumento di quest’ultima del 70 per cento). E poi ancora: i cambiamenti climatici (ci sarà bisogno di colture cosiddette water savings, ovvero in grado di crescere in condizioni di siccità), l’esaurimento progressivo delle fonti energetiche fossili, la lotta all’inquinamento atmosferico.
Noi in Italia (e in Europa) siamo ancora fermi al dibattito Ogm sì o no. Il mondo nel frattempo va avanti. E nel settore delle biotecnologie negli ultimi anni sono entrati in scena attori importanti come Brasile, Argentina e Malesia.

 

Allora ben venga Expo 2015, anche come occasione per discutere della questione delle biotecnologie in campo agroalimentare senza preconcetti ideologici e antiscientifici, senza pregiudizi, e con serenità scientifica e lungimiranza. Il nostro punto di vista è che il biotech giocherà sempre più un ruolo fondamentale nel “nutrire il pianeta” e “fornire energia per la vita”. E se si dice di essere aperti alla discussione, poi si deve essere disposti a cambiare la propria idea.

 

Alessandro Sidoli è Presidente di Assobiotec-Federchimica
(Associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie)

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