Walter White, protagonista di "Breaking bad"

Consumatori seriali

Fenomenologia delle serie tv, un successo con bambini a nanna. Diario semiserio

Piero Vietti

Sono ragionevolmente certo che tutti i produttori di fiction del mondo siano accaniti pro life: l’arrivo di figli in una famiglia è garanzia di pubblico per loro.

Non sono uno di quelli che a ogni nuova serie tv si commuove e ammorba gli amici spiegando loro che “questa è la più bella di tutte, non si era mai vista una cosa del genere in televisione”, né sono fruitore spasmodico e bulimico di qualunque prodotto seriale. Però. Però una sera di sei anni fa mi è capitato di vedere per caso dieci minuti della prima puntata della quinta stagione di “Lost”. Non ci ho capito niente. E poiché non sopporto non capirci niente di qualcosa che vedo, ho afferrato il primo cofanetto a disposizione con la prima stagione e ho cercato di andare a fondo. Non lo avessi mai fatto: le notti insonni passate davanti alla tv si sono improvvisamente moltiplicate. Il fatto di avere tutte le puntate in dvd, poi, è stato letale. Appena terminata una, bastava un cenno silenzioso con mia moglie: “Ne guardiamo un’altra?”. Sono ragionevolmente certo che tutti i produttori di serie tv del mondo siano accaniti pro life: l’arrivo di figli in una famiglia è garanzia di pubblico per loro. In cinque anni a casa mia avremmo visto tre o quattro film: quando si torna a casa tardi sapendo che l’alba avrà il suono di un vagito affamato, due ore davanti al televisore diventano un lusso che pensiamo possano permettersi solo i single.

 

Quaranta, quarantacinque, cinquanta minuti al massimo: ogni puntata di una serie tv ha la durata perfetta per mantenere la nostra attenzione e catturarci senza rubare nemmeno un’ora. Allo stesso tempo un’intera stagione permette di entrare nella storia a una profondità cui pochi film arrivano. Il fatto che negli ultimi anni le produzioni siano diventate sontuose, gli sceneggiatori bravissimi e gli attori da oscar ha aiutato parecchio, è chiaro, ma il format della serie tv è perfetto per questi tempi grami di flusso ininterrotto in cui siamo immersi. Ci affezioniamo ai personaggi, li aspettiamo di settimana in settimana, sappiamo che possiamo stare con loro il tempo di uno spostamento in metropolitana, di una pausa pranzo, nel letto prima di dormire, e che la cosa non finirà lì. Quasi sempre guardare una puntata di una serie tv è come prendere un caffè con la donna che amiamo; troppe volte dedicarsi alla visione di un film è rischioso come andare a cena con una ragazza sconosciuta di cui ci hanno detto che è simpatica.  

 

C’è poi tutta l’arte di autori e sceneggiatori, sadici e spesso bastardi, che si divertono a giocare sulle emozioni, distribuendoci con intelligenza la dose settimanale di fiction. Puntate che terminano con rivelazioni clamorose all’ultimo minuto facendoci odiare la musica della sigla finale come se fosse un’autogol nel derby della nostra squadra del cuore. Stronzi, non potete finirla così. Datemene subito un’altra. Certo, è un trucco che si era già visto in “Beautiful”, ma è a un altro livello. E’ l’evoluzione della specie aggiornata ai ritmi moderni. Talvolta sbrodolano, è vero, ma noi siamo molto più propensi a perdonare le sbavature, perché sappiamo che alla prossima puntata succederà qualcosa di veramenete figo. Sappiamo che succederà, e chissenefrega se questa volta l’intreccio non si incastrava alla perfezione. Non saremmo così buoni con un film che per una buona mezz’ora non funziona.

 

[**Video_box_2**]Non è solo intrattenimento. Su “Lost” – ok, è probabilmente una serie tv che fa storia a sé – sono stati scritti saggi filosofici, e gli spettatori per sei stagioni sono stati gettati in un fiume di domande esistenziali sul significato del male, lo scopo della vita, l’esistenza di un destino buono e il rapporto tra fede e ragione. Ma anche senza toccare quelle vette, la tanto celebrata “House of cards” titilla la nostra morale facendoci vedere fino a che punto può spingersi un uomo per ottenere il potere. Anche qui è tutta roba che Shakespeare aveva definito centinaia di anni fa, ma come noto non c’è nulla di più inedito dell’edito, specie se ha a che fare con l’umano. Non sono un consumatore bulimico, come detto (ho abbandonato “The newsroom”, che pure mi è piaciuta, dopo la prima stagione, e “The walking dead” dopo poche puntate), né un appassionato di un genere in particolare: seguo il dumasiano “Revenge” con la stessa passione del visionario “Leftlovers”, e ho scoperto con colpevole ritardo quella meraviglia di “Breaking bad”, ma sto rimediando. Come aspetto un’ora libera per poter riaprire un libro che amo là dove l’avevo interrotto, così mi succede adesso con le vicende di Walter White nella serie tv che ha appena vinto agli Emmy. Ne guardiamo un’altra?

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  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.