E' l'ora del pigiama. Questo Natale non uscite di casa, ci sono le serie tv

Manuel Peruzzo

Le vacanze natalizie possono essere un buon modo per rimettersi in pari sull'argomento socializzante preferito di chi non ha una vita sociale ed evitare di fare brutte figure con colleghi e amici. Da Games of Thrones a The Knick, cosa vedere e cosa evitare.

La serialità televisiva è l’argomento socializzante preferito di chi non ha una vita sociale. L'equazione è semplice: più trame hai seguito, meno sei uscito di casa. Le serie tv sono ciò che ha occupato il posto che avevano i libri e il cinema nelle litigate con colleghi e amici per stabilire chi avesse il gusto migliore. Non sempre si ha tempo di seguire tutto, e c’è sempre qualcuno pronto a farci sentire inadeguato perché ha visto lo streaming di ciò che ci sta appassionando cinque minuti prima di noi. Dato che è impossibile ammettere di essere all’oscuro dell’esistenza di Oilvia Pope o di Game of Thrones, pena l’esclusione dalla pausa pranzo o dalla timeline Facebook—che poi è la stessa cosa – la pausa televisiva natalizia può essere sfruttata per non rimanere tagliati fuori da discorsi e commenti, per recuperare il meglio dell’anno, o ciò che vale la pena conoscere. Per non correre il rischio di uscire di casa e, mio dio, che qualcuno vi rivolga la parola, sprangate le finestre, infilatevi il pigiama e accomodatevi sul divano.

 

Possiamo cominciare con una dichiarazione radicale: l’estetica non ci serve. La serialità non ne ha bisogno, e noi neppure, per goderne. Il mantra “le serie tv sono la nuova letteratura”, è vecchio di vent’anni: lo ha già scritto il New York Times. La narrazione televisiva è il modo con cui oggi facciamo esperienza del mondo e molto probabilmente Balzac o Conan Doyle nel 2014 sarebbero sceneggiatori. Con il pigiama addosso il consumo diventa onnivoro: serie americane, inglesi, italiane (senza esagerare: niente scandinave o australiane), broadcast e cable, drama e comedy, quality e quantity. L’unico nostro limite sarà definito dal grado di rilevanza nella cultura pop.

 

 

Questo è stato l’anno dei personaggi femminili forti, spietati, algidi. L’anno in cui le donne sono diventate i nuovi uomini, anche perché il femminismo e il sesso sono etichette ad alto incasso nell’industria dell’intrattenimento (meglio se vendute assieme). Maggie Gyllenhaal è Nessa Stein in The Honourable Woman, un’imprenditrice anglo-israeliana che crede che la comunicazione (in questo caso la fibra ottica) faciliti il processo di pace nel Medio-Oriente. Un po’ la versione degli anni novanta di Clinton con gli aeroporti, ieri, o di Zuckerberg con internet per tutti, oggi. Le cose si complicano: il figlio di un’amica viene rapito, parecchie persone muoiono, non ci si può fidare di nessuno e la pace si allontana. Hugo Blick dirige per BBC e SundanceTv questa miniserie in otto episodi definita dal Guardian come l’esempio perfetto di golden age televisiva. Lo spy thriller è solitamente terreno testosteronico, ma i personaggi principali qui sono tutti femminili. Vale quello che dice il capo dei servizi segreti nella serie: "in a room full of pussies, I'm the only one with a vagina".

 

 

Gillian Anderson in The Fall è Stella Gibson, una detective chiamata a riesaminare un caso complicato di un serial killer che uccide giovani donne. Stella fa sesso occasionale con uomini che poi caccia dalla propria stanza d’albergo, rimanendo sola mentre valuta reperti di donne uccise e mangia carboidrati di sera. Se questo non è il miglior modo di caratterizzare la forza e sicurezza in se stessi non so quale lo sia. Il killer è Jamie Dornan, un papino amorevole che dopo aver messo a dormire i figli accarezza una treccia dei capelli delle sue vittime. Come per i comici, la bellezza è faticosa da portare nel ruolo di maniaco: è dura per lo spettatore non simpatizzare per un atletico psicopatico costantemente mezzo nudo. Una sfida che accettiamo: il male può essere bello.

 

Tutto riguarda il sesso tranne il sesso: il sesso riguarda il potere. È una delle tante punchline di una delle serie più belle degli ultimi anni, House of cards. Il political drama di Netflix che segue la corsa presidenziale di Frank Underwood (Kevin Spacey), spietato e ambizioso personaggio shakespeariano, aiutato dalla moglie, Claire Underwood, che ama “più di quanto gli squali amano il sangue”. L’unica cosa che evolve nella seconda stagione è il loro matrimonio. Claire non vuole essere coccolata o messa su un piedistallo; ha accettato di stare con Frank perché lui le ha giurato non l’avrebbe mai fatta annoiare. La complicità è la loro forza.

 

 

Se valutassimo le serie in base alla citabilità, alla scala screenshot di contenuti viralizzabili, questa otterrebbe il massimo dei voti.

 

A proposito di donne potenti, per trovarne una all’altezza fuori dal copione dobbiamo considerarne la più culturalmente rilevante del settore. Secondo il Times questo è stato l’anno di Shonda Rhimes (in realtà è stato anche l’anno di Lena Dunham, ma per motivi di spazio eviteremo di infilarla anche qui). È la produttrice esecutiva di Grey’s Anatomy, Scandal e How to Get away with murder, per ABC (non succedeva dal 1982 che un solo autore avesse tre spettacoli in prima serata; l’ultimo era un uomo, Aaron Spelling). I suoi show sono “modelli di come fare della TV in chiaro un evento su ogni social-media, concepito per essere guardato, commentato, e condiviso grazie alla struttura modulabile”, scrive Matt Zoller Seitz nel ritratto che le dedica. Pare che Shonda supervisioni ogni fase produttiva di Shondaland, la sua casa di produzione. L’identità di brand è una scrittura iper-melodrammatica unita al totale sprezzo per il pericolo di saltare lo squalo, che in gergo è quel momento in cui si precipita nel ridicolo. Con lei non è possibile: è tutto esasperato, Shonda salta squali con la leggerezza con cui noi guardiamo compulsivamente il monologare piagnucolante di Olivia Pope o seguiamo la trama disseminata di coolness e sesso occasionale e fedifrago in How To get away with murder, la quale ci avverte di non ficcanasare nel cellulare dell’altro (“Sam, why is your penis on a dead girl's phone?”). Di lei pensiamo più o meno ciò che ha detto di se stessa ritirando il Sherry Lansing leadership awards: “I think I’m a pretty fantastic badass”.

 

Se si prendono in considerazione le serie "da maschi", la strada al successo è invece lastricata di morti. È quello che ci racconta Steven Soderbergh in The Knick, che è il nome dell’ospedale di New York in cui lavora, a inizio del novecento, il Dr. John W. Thackery, un carismatico e demoniaco Clive Owen. Thackery ci ha conquistato perché ha tutti i cliché dell’antieroe: uomo rispettato e di talento che quando non opera sotto l’effetto di cocaina passa il suo tempo con prostitute a fumare oppio. Il resto dei personaggi risponde all’esigenza di scardinare gli stereotipi di una società democratica e progressista, restituendoci una versione cruda della realtà di inizio secolo. Nonostante Soderbergh si sia annoiato del cinema, pare non se ne sia liberato del tutto. The Knick ha le caratteristiche per diventare un cult per fedelissimi. A proposito di cult, True Detective di Nic Pizzolatto e diretto da Cary Joji Fukunaga è, come ha scritto l’Atlantic, il miglior show dell’anno. Probabilmente avete già sentito che ci sono dialoghi esistenzialisti irritanti o mesmerizzanti (a seconda di quanto siete suscettibili) e un piano sequenza notevole che riprende l’estetica videoludica, ma il vero piacere è nel bromance tra Matthew McConaughey e Woody Harrelson, e nell’opposizione tra diversi tipi di masculinity. Quest’anno a dirigere parte della seconda stagione ci sarà  William Friendkin. Serve altro?

 

Non basta sapere cosa vedere, ma anche cosa non vedere. Utopia è una serie inglese che mette in gioco complottismo, nerd ed eugenetica. Inutile vederlo: David Fincher ne sta realizzando una versione americana che sarà certamente superiore sotto ogni aspetto all’originale. Il problema qui è che, nonostante sia piacevole da seguire, è costantemente disseminata di umorismo inglese (l’umorismo inglese è come la regina: ci credono solo loro). A ogni omicidio seguono cinque minuti di siparietto e dialoghi stranianti che significano "siamo europei, mica ci limitiamo all’azione, vogliamo il contenuto". Prendete tempo, dite che la colonna sonora è strepitosa e aspettate il capolavoro.

 

Passiamo al capitolo hate watching, ciò che amiamo detestare. David Lindelof era partito bene all’inizio dell’anno con una promessa: "non finirà come Lost". Si riferiva alla season finale che ha deluso le aspettative di quella che è una delle serie capitali dieci anni fa. Questa volta in Leftovers il 2 per cento della popolazione scompare, e noi seguiamo la vita dei rimasti, tra sette di tabagisti e padri in conflitto coi figli. Questa serie ha tutti i difetti della quality senza i pregi. Dal pacco di Lindelof a quello di Theroux, il passo è breve. Quando Justin Theroux non è nudo è perché sta accadendo qualcosa. Più o meno in un paio di episodi.

 

Infine c’è The Affair, il rashomon delle corna a Montauk. Alison Lockhart è circondata di maschi alfa, ranch e testosterone ma tradisce il marito con uno scrittore d’insuccesso che si fa passare la paghetta dal suocero, il quale è un bestsellerista. Si incontrano, condividono problemi esistenziali, scopano molto. Si parte dal punto di vista di lui e poi quello di lei, c’è un morto (spoiler: è lo spettatore). Il pilota è il migliore dell’intero anno, il resto non è all’altezza seppur ben scritto. Da recuperare anche Black Mirror nello speciale di Natale White Christmas con un impeccabile Jon Hamm. Charlie Brooker ha un’idea della tecnologia come un oggetto che ci intrappola e aliena, le sue critiche tecnologiche sono meno convincenti di quanto qualcuno crede (meglio leggere Morozov): gli basterebbe salire senza batteria nel cellulare su un Trenitalia.

 

[**Video_box_2**]A meno che non siate gay o teenager vi capiterà raramente di condividere opinioni sulla quarta stagione di American Horror Story, di Ryan Murphy per FX. Serie antologica, questa volta siamo in un freak show, uno spettacolo itinerante che mette in scena ripugnanti creature che desiderano solo la normalità. Trattasi di brodo allungato: l’insistente tentativo di costruire uno spettacolo queer, dove gli omicidi sono la scusa per mettere in discussione l’eternormatività, è un gioco scoperto. Molto meglio ridere con Transparent, una comedy drama prodotta da Amazon Studios, su una famiglia che scopre il proprio padre essere transgender. Divertente e sottile ironia sulla political correctness americana e le contraddizioni liberal. Altra serie convincente dell’anno sono lo scorretto You Are the Worst e una sorpresa italiana, Gomorra, il cui grado di sceneggiatura è pari all’alta qualità della scenografia. Finalmente una serie “che sembra americana”, ma è italianissima.

 

Ci separano un centinaio di giorni dalla quinta stagione di Game of thrones, vi conviene fare binge watching da ora e recuperare le 4 stagioni. Winter is coming: avete la scusa per non affrontare il freddo. Solo ricordatevi che prima o poi dovrete uscire.

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