Gianni Letta (foto LaPresse)

Sabbie immobili

Ha il volto di Catricalà, ma a Palazzo il vero sconfitto è Gianni Letta

Salvatore Merlo

Il gran boiardo si ritira dalla corsa per la Corte costituzionale. Fronde vecchie, nuovi potenti, stelle cadenti.

Roma. Alla fine Antonio Catricalà si è ritirato, e la cosa è sembrata inevitabile, nel marasma, a un certo punto, persino al Cavaliere. Giovedì sera la domanda di Berlusconi era suonata candida e recisa: “Ma esattamente qual è il motivo per cui non votano Catricalà alla Corte costituzionale?”. E a quel punto i suoi interlocutori telefonici hanno affastellato i nomi di Raffaele Fitto e di Nicola Cosentino, qualcuno ha tirato dentro Nitto Palma (che si è rabbuiato), hanno poi singhiozzato l’espressione “cazzetti personali”, si sono infine ingarbugliati sui problemi di Renzi con Bersani e con D’Alema, e insomma hanno dato al grande capo annoiato la rappresentazione più confusa, dunque anche verosimile, di quello che accade a Montecitorio in queste ore sconnesse, nei giorni agitati in cui il Palazzo non è riuscito a eleggere né Catricalà né Luciano Violante alla Consulta.

 

Quello dei numeri in Parlamento, delle elezioni a scrutinio segreto, è infatti un mondo incorporeo, contano le interpretazioni e i calcoli, le promesse e le bugie, e gli uomini di Forza Italia, i capigruppo, l’interessatissimo Gianni Letta, e persino la volpe Denis Verdini, vi si aggirano con energia e determinazione simulate, vi brancolano tutti come nelle nebbie dell’Ade. Anche le veline offerte ai giornalisti, in queste ore, sono piene di favole torbide. E allora nel partito del Cavaliere suggeriscono che la debolezza di Catricalà, che ha preferito ritirarsi, è in realtà, soprattutto, la debolezza, o la sopraggiunta minor forza di Letta, del gran visir del berlusconismo, dell’uomo dai pensieri sempre pettinati. La resa di Catricalà è un po’ anche la resa di Letta. E insomma i gerarchi di Palazzo Grazioli suggeriscono, maliziosi, che nel gruppo parlamentare di Forza Italia in tanti preferiscono Donato Bruno, un tempo molto amico di Cesare Previti, perché Bruno non è affatto sgradito a Verdini, cioè al nuovo gran visir, alla nemesi di Letta, al garante del patto del Nazareno con Renzi. Dicono anche che a Berlusconi, “che sia Bruno o che sia Catricalà non gliene cale”. Chissà. “Ringrazio i parlamentari che mi hanno votato ma chiedo loro di non sostenermi ulteriormente”, ha detto lui, il candidato sconfitto, il gran boiardo.

 

Modico all’apparenza e nel parlare, ma vivo nell’azione come cauto e acuto nel pensarla, Catricalà, il gran boiardo, è certamente un concentrato di giannilettismo, che non è una vocazione né un’idea divorante, ma una trama immateriale eppure solidissima di interessi e relazioni, sinuosa, incolore, garbata, trasversale, mai pungolata dall’esibizionismo. E’ come il rovescio di un ricamo, un groviglio di fili e di nodi “che l’ascesa di Renzi e il cambio di regime stanno però contribuendo a sciogliere”. Avvocato dello stato a soli ventisette anni, Antonio Catricalà a trenta ha rappresentato il governo nel processo Moro. Poi è diventato consigliere di stato, e si è imposto capo di gabinetto, braccio destro per ministri di ogni colore: con il socialista Antonio Ruberti negli anni del governo Andreotti, poi con Giuliano Urbani nel primo governo Berlusconi, ancora con Franco Frattini nel governo Dini e infine con Antonio Maccanico nel governo Prodi. Nel 2001 Gianni Letta lo volle a Palazzo Chigi come segretario generale della presidenza del Consiglio, come suo braccio destro. La brillante carriera di un uomo ultra competente, sempre apprezzato, in possesso d’una conoscenza profonda della macchina dello stato. Nel 2005 diventa presidente dell’Antitrust, poi entra nel governo di Mario Monti nel ruolo che fu proprio di Letta, e infine, nel 2013, stimato da Berlusconi senza mai perdere tuttavia la simpatia del centrosinistra, viene chiamato a far parte anche del governo di Letta nipote, di Enrico Letta, con l’incarico delicato di ministro dello Sviluppo (con delega alle Telecomunicazioni).

 

[**Video_box_2**]L’andamento della sua ascesa, la parabola dei suoi successi, la molteplicità dei suoi ruoli, nel Palazzo sono stati considerati sempre un paradigma: dentro quell’istituto che è il lettismo il potere politico valica il confine della propria naturale solitudine partigiana, e si adatta, in una sofistica contrattualità di rapporti, alla contingenza. Ma adesso qualcosa comincia a non funzionare, il meccanismo s’inceppa, gira un po’ a vuoto, qualcuno versa della sabbia. Catricalà si è dovuto ritirare dalla corsa per la Corte costituzionale, sospinto fuori da una fronda misteriosa, celata nell’ombra del voto segreto di Montecitorio. “Il potere cambia, anche nel berlusconismo”, dicono. Nell’ultima tornata di nomine per le grandi aziende pubbliche, era stato Verdini, con gli ambasciatori renziani e fiorentini come lui, con Luca Lotti, con Marco Carrai, a giocare da protagonista quello che un tempo era il gioco solitario e principesco del vecchio Letta. E per quasi un anno, è stato Verdini a esercitare il ruolo esclusivo di capo della diplomazia berlusconiana alla corte di Renzi, tessitore degli accordi, architetto dei dedali sotterranei che collegano Arcore e il Nazareno. Poi Letta è stato convocato anche lui. Sembrava pace fatta. Ma forse no.
Twitter @SalvatoreMerlo

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.