Corona finalista al Campiello è un alpinista da catalogo Postalmarket
Il problema principale dello scrittore, finalista senza speranze di vittoria al Campiello 2014, è che ci sono in giro troppi Mauro Corona. Quello de “La voce degli uomini freddi” è il Corona lirico, poetico, sognante e quasi mitopoietico. Forse troppo.
Il problema principale di Mauro Corona, finalista senza speranze di vittoria al Campiello 2014, è che ci sono in giro troppi Mauro Corona. Uno è quello degli autodafé: “Non sono un profeta, sono un cialtrone” (dicembre 2011). Ma c’è poi quello che denunzia il complotto radical chic di Fabio Fazio e la sua ghénga: “Mi discrimina, vede in me un pericolo” (dicembre 2010); “Recita, fa il buono, ma io gli sto sulle palle. Una mafia? Non lo dico, sennò mi denuncia” (marzo 2013). Dopo ne arriva un altro, che va cinque volte nel salottino di Daria Bignardi, è gentile con lei e parla un italiano sorvegliato. A seguire, c’è il Mauro Corona dottissimo. Egli interloquisce con l’incolpevole Bruno Pizzul e, durante una presentazione, sciorina citazioni da Macedonio Fernández a Heinrich Heine, da Cechov a Pessoa (maggio 2012, in un magnifico ristorante del trevigiano). Non manca, inutile dirlo, il Mauro Corona apocalittico. Costui non partecipa alle manifestazioni per il cinquantenario dalla tragedia del Vajont perché “ce ne sarebbe voluta anche una per i 49 anni, e una per i 48, e via indietro. Non è che se lo ricordano solo perché, quest’anno, c’è la cifra tonda” (marzo 2013, nel suo atelier di scultore, a Erto).
Il Corona in concorso al Campiello con “La voce degli uomini freddi” (Mondadori, 2013), è un altro ancora: è il Corona lirico, poetico, sognante e quasi mitopoietico. Qui si racconta l’antinomia senza soluzioni tra gli uomini freddi, quelli della montagna, legati alla natura e alle tradizioni, e le città fumanti, cioè i tempi moderni, l’industria e tutto il male ch’esse portano. Non è un tema dei più originali e, a raccontarlo, Mauro Corona sceglie parole alate, troppo alate. Un primo esempio, tratto dal primo capitolo: “Lassù vivevano donne e uomini soffiati nella neve, statue di ghiaccio che nessun fuoco avrebbe mai potuto sciogliere. Nemmeno quello dell’amore. Si diceva che durante gli amplessi conservassero i corpi gelidi, mentre l’irruenza del coito era disordinata e forte come due valanghe che si scontrano. I bambini che nascevano venivano subito messi da parte, ché le vecchie levatrici, ormai carcasse gelide e tristi, quasi non li tenevano in mano, tanto erano freddi”.
[**Video_box_2**]Da uno scrittore che, quest’anno, ha ricevuto il Premio Mario Rigoni Stern per la letteratura multilingue delle Alpi, ci si aspetterebbero, forse, toni meno sognanti. Che tuttavia continuano: “Ci fu un tempo in cui nevicò più del solito. Una donna sfregava il suo corpo sugli alberi e forse il suo odore era l’universo, perché attraeva tutti gli uomini come i camosci a novembre. E i maschi correvano. Ormai non la cercavano annusando, ma saltavano là dove vedevano la cima di un albero dondolare. A volte era solo un cervo che si grattava. Allora se ne andavano scornati. Ma spesso era lei che si strusciava. E i camosci a due gambe correvano. Tanti. Così tanti che a volte si trovavano in quattro o cinque tutti attorno alla donna, pronti ad averla” (pag. 147). E, verso la fine: “Nelle città fumanti la vita bolliva, si alzava come latte sul fuoco, s’allargava, cresceva e straripava. Di conseguenza, s’inaspriva. Lungo il corso degli anni molto era cambiato e ancora, di continuo, stava cambiando. Nascevano cose nuove e tante apparivano d’improvviso. Invenzioni strabilianti, spesso non necessarie, che per funzionare avevano bisogno di forza come il boscaiolo dell’accetta. Questo succedeva laggiù. Dal tempo del costruttore di violini, il mondo si era ribaltato lungo la china del progresso prendendo velocità. Adesso i violini li facevano in grandi casermoni chiamati fabbriche. Ne assemblavano a centinaia ogni giorno, senza rispetto” (pag. 218).
La voce del 64enne sedicente alpinista di Erto (provicia di Pordenone) è un falsetto che consola. Con la bandana in testa dovunque vada, il vocione da orco buono e, a credergli, l’abbandono dell’alcol, Mauro Corona è perfetto modello di montanaro da catalogo Postalmarket. Piacerà ancora a lungo alla gente che piace e che a lui, in fondo, nemmeno dispiace troppo.
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