Qui si difende il tavolo del genio Tatò e la libertà di usare i libri come ci pare

Stefano Di Michele

Chi ama davvero i libri, sa che i libri sono, né più né meno, che un oggetto – lo scolapasta, il ventilatore, la caffettiera. Certo – non si parla né di edizioni rare né di copie autografate né di libri che abbiamo particolarmente amato.

C’è del genio, nel tavolino di Franco Tatò. Quei cento volumi (che poi, essendo volumi Treccani, inevitabilmente volumoni), plastificati e sistemati nel bel mezzo del salone di casa (casa delle vacanze, masseria pugliese) – tavolinetto, tavolone, otto persone comode comode: il caffè del dopopranzo e il whiskey del dopocena sorseggiati sopra tutto il sapere del mondo è gran bella soddisfazione. Forse c’è pure del risentimento da ex amministratore delegato della stessa Treccani malamente fatto fuori, come dicono i giornali – magari, chissà, ma chi se ne frega: c’è il colpo di genio, soprattutto, in quella specie di monovolume assemblato nel Domopak e sistemate con vista sul camino e alla vista di tutti. Il genio del designer (avendo la casa di Tatò, chi non vorrebbe il tavolo di Tatò?), ma soprattutto della provocazione. Chi ama davvero i libri, sa che i libri sono, né più né meno, che un oggetto – lo scolapasta, il ventilatore, la caffettiera. Certo – non si parla né di edizioni rare né di copie autografate né di libri che abbiamo particolarmente amato (sottolineato, riletti, tenuti ore e ore tra le mani).

 

Ma per il resto, da che mondo è mondo (da qualche secolo, diciamo, dopo Gutenberg) sempre un libro ha soccorso un tavolino zoppicante, sempre ha fermato una porta indisciplinata (solo volumi rilegati), sempre ha fatto compagnia al cesso, sempre è stato scaraventato contro una parete. Federico Moccia come Proust, Fabio Volo come Musil, Totti come Thomas Mann: se ce ne sono milioni di copie, e se uno si rende necessario per la lettiera del gatto, che male c’è (anzi, certe volte…)? Ora, se pure di una semplice edizione tascabile – che viene da un amore, che giunge da giorni allegri o tristi, che arriva con la dedica di un autore amato – si può avvertire l’unicità, difficile che la stessa cosa possa accadere con un’enciclopedia. Treccani, poi. Nobilissima opera, si capisce. Utilissima iniziativa, ognuno lo sa. Vanto dell’Italia intera, va da sé. Benemerita elaborazione. Sempre dietro le spalle del direttore del Corriere in collegamento tivù. Sapienza in formato maxi. Ma innamorarsene, ecco…

 

Se non è proprio il lascito del nonno, è cosa complessa: mica puoi mettere il volume per cui hai maggior trasporto (es. vol. XXVIII Porti-Rec) nello zaino e portarlo con te se vai a occupare il Valle o a fare la vendemmia biologica. Un libro è un libro. Il genio di Cechov è libro – ma pure il “Mein Kampf” è un libro (persino i gatti per la lettiera ci vanno cauti). Poi, stampa e stampa e stampa, tutti i libri avanzano, si sommano, si accatastano. (Il venditore bengalese di volumi usati/nuovi con bancarella in centro, sfotte: “Ecco, voi sempre democrazia, democrazia, democrazia, poi mi tocca venderla tutta a me a metà prezzo”). Il libro adesso è, né più né meno, una merce – come la disputa, con appelli e contrappelli, tra Amazon e Hachette, animata dai più famosi (e pagati, di meritato successo) scrittori del mondo.

 

Chiaro che l’utilizzo di un libro oltre la lettura può farlo solo un privato cittadino (il sig. Tatò tale è): che l’ha avuto in dono, che l’ha comperato, o che magari (in gioventù è quasi inevitabile rito di passaggio) sgraffignato qua e là. Se lo fa un governo – tipo dargli fuoco – fa schifo: il rogo scalda sempre la lama di qualche psicopatico al potere. Ma il privato cittadino se ha un colpo di genio ne fa un tavolino, in certe librerie romane piegavano le pagine così da farne sculture di carta (e venderle come tale): topo con Conrad, papero con Tolstoj, marmotta con la Dickinson (peraltro, si vede, tutto materiale di primissima scelta).

 

Il pachidermico investigatore Nero Wolfe (autore: Rex Stout), lettore di Montaigne, aristocratico/democratico, in un romanzo è alle prese con la distruzione (prima strappo di pagina, poi getto nel fuoco del camino) di un dizionario che ha sconsacrato la lingua inglese, mentre il suo collega Pepe Carvalho (autore Manuel Vázquez Montalbán), borghese/sovversivo, pure a volte li brucia “per vendicarsi del poco che gli hanno insegnato”. Ci sono scrittori che, a ogni nuovo arrivo in biblioteca cacciano un vecchio residente, e raccontano di Julio Cortázar che, quando era in viaggio, per non essere aggravato dal peso, leggeva una pagina, la strappava, la passava alla moglie che, dopo averla letta, la buttava fuori dal finestrino del treno.

 

Già anni fa, con certi volumi della Treccani, Benedetto Marcucci fece opera per il Macro mettendoli sott’olio – come le melanzane, o la caciotta marzolina (meno commestibili, però). Elevando (quasi per intera) l’opera a mobìlia (“meno corretta mobìglia”, si avverte col vocabolario Treccani) il sig. Tatò ha compiuto passi avanti. Epicurei sopra il tavolo, quando è ora; Epicuro dentro, sempre.

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