Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne (foto LaPresse)

Non solo Montezemolo. Vittime e successi dell'American dream

Marco Valerio Lo Prete

Il presidente della Ferrari che Sergio Marchionne domenica scorsa ha giudicato in pubblico “non indispensabile” (come ogni altro), è soltanto la vittima più illustre del “sogno americano” di Fiat. L’innesto “americano” all’interno dell'azienda italiana non poteva essere indolore.

Luca Cordero di Montezemolo, il presidente della Ferrari che Sergio Marchionne domenica scorsa ha giudicato in pubblico “non indispensabile” (come ogni altro), è soltanto la vittima più illustre del “sogno americano” di Fiat. L’“American dream” del Lingotto, ripercorso in maniera analitica nell’omonimo libro scritto per Chiarelettere dal giornalista Marco Cobianchi, non è infatti una storia per deboli di cuore, viene da dire parafrasando il manager in pullover arrivato alla guida di Fiat il 1° giugno del 2004. L’innesto “americano” all’interno della prima azienda manifatturiera italiana, e nel pieno della recessione più grave da decenni, non poteva essere indolore: né per le nostre relazioni industriali ingessate, né per certo capitalismo troppo salottiero.

 

Eppure, a dispetto di molte attese, la missione di Marchionne finora è “compiuta”, sintetizza Cobianchi: “La Fiat non è stata liquidata per due lire come qualcuno puntava a fare, non è stata nazionalizzata come qualcun altro avrebbe voluto e non è fallita”. Marchionne “ha fatto sopravvivere una piccola Casa automobilistica, in perdita e con azionisti poveri ma disposti a tutto pur di mantenere il controllo, a una crisi economica devastante, in un’area, quella europea, ipercompetitiva, e in un paese, l’Italia, strutturalmente avverso all’iniziativa privata”. “Se serve chiamate lui”, avrebbe detto Umberto Agnelli in punto di morte, riferendosi al figlio di Concezio Marchionne (maresciallo dei carabinieri di origini abruzzesi) e Maria Zuccon (nata in quello che oggi è territorio sloveno). Lui arrivò e, in un’intervista a Massimo Gramellini sul giornale di Casa Agnelli, la Stampa, disse tra l’altro che negli stabilimenti Fiat in giro per il mondo aveva percepito che “l’idea di fare i soldi non era minimamente presa in considerazione, come in certi ambienti islamici dove il guadagno è considerato una forma di usura”.

 

[**Video_box_2**]Cobianchi non mitizza i dieci anni appena terminati. Descrive anzi fasi convulse, come la serie di tagli che “segue una progressione castale inversa”, cioè partendo dall’alto: Luigi Gubitosi (direttore finanziario), Pierluigi Fattori (capo del personale), Martin Leach (capo della Maserati), Herbert Demel (ad dell’Auto) saltano e per lungo tempo l’interim lo prende Marchionne; dopo gli “aristocratici”, vengono licenziati 150 “nobili”, molti ingegneri e quindi si procede alla richiesta allo stato di mobilità per oltre duemila colletti bianchi. Perché, come dimostrano per esempio quest’ultimo caso e le concessioni ad hoc dal governo Prodi, la storia del Lingotto di Marchionne, fra rottamazioni, fondi per la ricerca e la cassa integrazione, non ha mancato di poggiarsi sulla stampella pubblica. La stessa di cui da qualche tempo il Pullover assicura pubblicamente di poter fare a meno. Nella sua inchiesta, il giornalista si sofferma pure sugli otto piani industriali presentati da Marchionne in nove anni e rispettati “solo a metà”, come anche sui tentativi di internazionalizzazione finiti male.

 

Tutti i tentativi tranne uno, che per ora si è rivelato però quello decisivo. Cioè la fusione con Chrysler cominciata dopo il quasi crac della società statunitense alla fine del 2008. Le trattative con l’Amministrazione Obama sono state estenuanti, sempre appese a un filo. Come pure quelle con i sindacati a stelle e strisce: “In Italia non si comprende a che cosa abbiano rinunciato gli operai americani – scrive Cobianchi – E’ come se Cgil, Cisl e Uil fossero d’accordo nell’abolire la cassa integrazione e i prepensionamenti per i dipendenti di una società della quale sono proprietari al 55 per cento e al tempo stesso rinunciassero al diritto di scioperare”. Per molto meno – un contratto aziendale fuori dalla vetusta concertazione nazionale con sindacati e Confindustria, contratto che per esempio a Pomigliano ha aumentato l’occupazione nonostante lo stabilimento non abbia raggiunto gli obiettivi massimi di produzione – in Italia Marchionne è diventato il nemico pubblico numero uno. E non è finita qui. Perché, evitata la liquidazione di Fiat, nessuna delle “strade percorribili” per mantenere aperti gli impianti italiani è in discesa. Inclusa quella dichiarata che consiste nel portare Fiat a diventare protagonista nel segmento premium del mercato automobilistico, a fianco di Audi, Bmw e Mercedes.