La Scozia esiste solo quando perde

Alessandro Giuli

Cuori impavidi o tossici, simpatici e velleitari. E Irvine Welsh lo sa. La romantica visione degli ultimi alla riscossa, perfettamente in linea con un altermondismo atlantico che ha spopolato negli anni Novanta, e che ha trovato in “Braveheart” il suo film totemico.

Gli scozzesi sono simpatici quando perdono, quando sono sconfitti da eroi, magari con la frode e in modo sanguinario. Quando possono dire che qualcuno (gli inglesi) li deruba della patria e della libertà. Allora sì che piacciono e fanno notizia i loro kilt e i loro clan, i loro whisky e le loro rudezze così letterarie e, volendo, cinematografiche. Altrimenti non rilevano. In fondo Irvine Welsh (ieri su Rep.) non fa che ricalcare questo luogo comune che come ogni luogo comune è anche autentico: con la sua foto in gonnellino di tartan, la testa rasata da ex tossico cui è caduta la cresta punk, Welsh decora una sua intervista nella quale si dice certo che il referendum per l’indipendenza scozzese segnerà il ritorno della democrazia dal basso contro il “sistema corrotto, imperialista ed elitista” britannico; e che in ogni caso “il genio è uscito dalla lampada”.

 

 

Come è romantica questa visione da ultimi alla riscossa, perfettamente in linea con un altermondismo atlantico che ha spopolato negli anni Novanta, e che ha trovato in “Braveheart” il suo film totemico (1995), una storia vera dedicata al patriota William Wallace, impersonato da Mel Gibson (naturalmente la storia finisce male: Wallace viene tradito, torturato, decollato e fatto a pezzettini). Questo senso d’ingiustizia permanente, ritmato dalla malinconia delle cornamuse, è ben vivo anche nell’indipendentismo irlandese – gli U2 sostenevano che l’Irlanda militarizzata dall’Ira fosse un po’ come il Sudafrica di Mandela, e hanno musicato “Nel nome del padre” con Daniel Day-Lewis, anno 1993 – e scorre parallelo nel letto limaccioso delle sottoculture metropolitane, laddove l’animo identitario si combina con una ribellione al “sistema” fatta di codici estetici estremi e anti borghesi. Il manifesto di questa ultima e velleitaria sollevazione giovanile, coda di cometa del punk-hard-rock che furoreggiò in Gran Bretagna dalla fine dei Settanta del secolo scorso, l’ha scritto appunto Irvine Welsh, poi è diventato una pellicola di culto: “Trainspotting” (1993): un pastiche di micro-storie nella periferia di Edimburgo, accomunate dalla dipendenza dall’eroina, dall’illogicità della violenza e dalla colonna sonora acida.

 

[**Video_box_2**]Fortuna però che il protagonista, Ewan McGregor, se la cava e ci lascia un grande apologo: “La verità è che sono cattivo. Ma questo cambierà, io cambierò. E’ l’ultima volta che faccio cose come questa… metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto, scelgo la vita. Già adesso non vedo l’ora. Diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxi televisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l’apriscatole elettrico… buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai da te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario d’ufficio, bravo a golf, l’auto lavata, tanti maglioni, natale in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti, lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai”. Welsh ora fa il romantico, ma l’aveva capito: meglio seppellire il Braveheart eroinomane e affidarsi al quieto welfare state elargito da sua maestà la regina d’Inghilterra.

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