La politica internazionale di Obama non può essere compresa senza l’alveo della tradizione internazionalistica americana. Ma ne scaturisce uno stridore incomprensibile

L'aquila abbattuta

Antonio Donno

 “Imperium et libertas” è il motto sotteso a tutta la politica estera dell’America dal Dopoguerra. Fino a Obama. Perché è in crisi l’internazionalismo degli Usa.

Quando, il 12 marzo 1947, Truman annunciò la sua dottrina di intervento americano nel mondo, il New York Times definì quel discorso “un cambiamento radicale (nella politica estera americana) nello spazio di ventuno minuti”. Il Congresso americano rimase scioccato e James Reston definì l’intervento del presidente “comparabile per importanza” solo alla Dottrina Monroe. In questo modo, nelle sue memorie, il consigliere speciale di Truman, Clark Clifford, uno dei massimi ispiratori dell’internazionalismo trumaniano, ricorda quell’evento memorabile nella storia delle relazioni internazionali degli Stati Uniti.

 

Iniziava l’èra del “globalism” americano del secondo Dopoguerra, una politica di grande respiro che molti storici hanno collegato alle esigenze della Guerra fredda e della lotta all’Unione sovietica. Ma non è così. Non è solo così. La battaglia contro la minaccia del comunismo sovietico era soltanto il riflesso di una concezione grandiosa del ruolo che gli Stati Uniti avrebbero dovuto svolgere nel mondo. E questo ruolo non era neppure legato semplicemente al disegno di “esportazione” della libertà nel mondo, come molti hanno detto.

 

[**Video_box_2**]Il disegno di Truman rispecchiava il motto ottocentesco che accompagnò l’espansione continentale degli Stati Uniti: “Imperium et libertas”. E tale motto è rimasto implicitamente sotteso a tutta la politica internazionale americana del secondo Dopoguerra, fino a Barack Hussein Obama. Con Obama avviene la drammatica frattura, la svolta verso un isolazionismo che sa di insignificanza politica. Ma procediamo con ordine. Con il termine “imperium” i politici e gli osservatori americani dell’Ottocento intendevano un luogo-simbolo – politico, morale, economico – intorno al quale dovesse ruotare un nuovo sistema politico continentale, prima, e, dalla fine del secolo in poi, internazionale. E così è stato per tutto il Novecento, anche durante gli anni 20, erroneamente ritenuti una decade di isolazionismo: lo fu nei rapporti con l’Europa, verso la quale gli americani nutrivano un sentimento di rifiuto e di distacco dopo gli stermini della Prima guerra mondiale, ma non verso l’Asia-Pacifico, che divenne il centro degli interessi politici ed economici di Washington.

 

In sostanza, l’“imperium” americano è stato per più di un secolo la stella polare delle relazioni internazionali degli Stati Uniti. “Imperium” – ripeto – da non intendersi a ogni costo come obbligo, necessità o missione di esportare la libertà nel mondo. Questa fu la parola d’ordine di Woodrow Wilson, ma era solo uno slogan: la realtà, che vi stava dietro, era che gli Stati Uniti si ponevano come elemento di una stabilizzazione internazionale duratura: meglio, se attraverso un processo di diffusione della libertà, ma, in primo luogo, come contenimento, raffreddamento, mediazione tra le spinte centrifughe che fossero emerse nei vari scacchieri del sistema politico internazionale.

 

Così, l’“imperium” americano si rafforzò e divenne l’ago della bilancia durante gli anni della Guerra fredda. Occorre liberare il campo da un mito persistente nella storiografia del secondo Dopoguerra e nella stessa opinione pubblica. Il bipolarismo degli anni della Guerra fredda non fu un duopolio Stati Uniti-Unione sovietica, non fu una divisione del mondo tra due modelli: ciò vorrebbe dire che il comunismo sovietico ebbe un’attrazione paragonabile al liberalismo americano. Niente di più falso. Il comunismo si impose in mezzo mondo solo con la violenza, non con la persuasione, come la storia dell’occidente liberale ben dimostra. Il bipolarismo è un termine proprio della teoria delle relazioni internazionali, non della storia del Ventesimo secolo quale si è andata svolgendo davanti agli occhi di milioni e milioni di uomini in ogni parte del mondo. Il modello liberale, con la sua fantastica propulsione economica, dava agli Stati Uniti una centralità nel sistema politico internazionale che il comunismo non poteva mai e poi mai pensare di controbilanciare. Il comunismo era la negazione della libertà: questo era il punto. I presidenti americani del secondo Dopoguerra e i loro governi lo sapevano bene. Il comunismo era il nemico da battere, ma ancora più importante era dare al mondo, anche a quello comunista, un punto di riferimento efficace per stabilizzare quanto più possibile il sistema politico generale. Questo fu il compito degli americani per tutto il secondo Dopoguerra, un compito che, nel complesso, è stato pregevolmente svolto da tutte le presidenze, repubblicane o democratiche che fossero. Il successo è stato tale che lentamente ma inesorabilmente l’Unione sovietica ha dovuto acconciarsi al dato di fatto: la superiorità del modello americano su quello comunista. Il crollo del comunismo non fu solo dovuto alla sua disgregazione interna, ma al fatto che il suo modello, nel corso del tempo, si mostrò inadeguato a reggere la sfida. Nessun presidente americano ebbe mai alcun dubbio sull’esito finale del confronto. Con Nixon e Kissinger, in particolare, il modello di stabilizzazione del sistema politico voluto dagli Stati Uniti trionfò. Da quel momento in poi la crisi dell’Unione sovietica come modello alternativo alla centralità americana nel mondo fu evidente e condusse, poi, alla disgregazione finale. Allo stesso modo, l’azione penetrante della diplomazia americana nei confronti della Cina comunista portò a un esito impensabile per molti, ma non per il duo Nixon/Kissinger: Washington sdoganò Pechino in funzione antisovietica, ma Pechino si rese conto ben presto che per mantenere stabile e rafforzare questo suo ruolo, fornitogli dagli americani, doveva cambiare registro a livello economico; e dette vita a un capitalismo aggressivo, per quanto ancora sormontato dall’apparato del Partito comunista. Per ora.

 

Il “globalism”, dunque, dava i suoi frutti. Questo obiettivo e le sue conseguenze non avrebbero potuto mai essere conseguiti senza la presenza dell’“imperium et libertas” americani nel mondo. L’impostazione di Truman, preceduto di molti anni da Wilson, si era radicata nella tradizione politica americana e nella visione del mondo delle sue classi dirigenti. Era ormai il mainstream della presenza americana nel mondo. Ed era anche l’orgoglio degli americani. Grazie al ruolo centrale degli Stati Uniti nello scacchiere internazionale globale il mondo ha goduto di una sostanziale stabilità, dovuta anche al progressivo indebolimento del messaggio comunista; e questo ruolo è continuato anche dopo il crollo dell’Unione sovietica, durante gli anni di Clinton e poi quelli di Bush, nonostante le avvisaglie di alcune crepe nell’equilibrio internazionale. Pur inizialmente riluttante, gli squilibri che si annunciavano spinsero Clinton a non privare il sistema politico del fondamentale ruolo equilibratore degli Stati Uniti. Clinton, cioè, non poté chiudere gli occhi di fronte alla realtà storica della funzione essenziale esercitata dagli Stati Uniti nell’arena globale; una funzione sancita da un secolo – il “secolo americano” – di ininterrotta egemonia di Washington nel mondo; il sistema politico internazionale, in sostanza, si era acconciato, modellato intorno al perno costituito dal ruolo degli Stati Uniti. Questa è la realtà che il Ventesimo secolo ci ha lasciato.

 

Come avvertono tutti gli studiosi di relazioni internazionali, il sistema politico globale non tollera i vuoti. Ma occorre scendere dalla teoria alla realtà storica. Per non tornare troppo indietro nel tempo, consideriamo ciò che è avvenuto nel medio oriente durante i recenti anni del tanto vituperato George W. Bush. Quando Bush ha deciso, dopo l’11 settembre, di portare le sue truppe in Afghanistan, lo ha fatto perché in quella regione, dopo il ritiro dei sovietici sconfitti, si era creato un vuoto di potere in cui si era installato rapidamente un centro islamista, per opera del quale si andava diffondendo nel mondo un attacco terroristico su vasta scala, di cui gli stessi Stati Uniti subirono le tragiche conseguenze. Ancora, quando Bush ha deciso di abbattere Saddam Hussein, non lo ha fatto soltanto per diffondere la democrazia nel mondo arabo, ma soprattutto perché il dittatore iracheno, prima con la guerra contro l’Iran e poi con l’invasione del Kuwait, tentava di modificare sostanzialmente l’assetto geopolitico del medio oriente, creando con la forza dei vuoti di potere in cui inserire la propria egemonia. In ritirata l’Unione sovietica e con la Cina ancora non coinvolta in regioni lontane dalla sua influenza, l’unica potenza in grado di evitare uno scossone così grande e potenzialmente in grado di sovvertire la stabilità del sistema politico internazionale erano gli Stati Uniti. E gli Stati Uniti, con Bush, ancora una volta seguirono il corso della propria tradizione politica internazionale, ponendosi come forza d’urto combattente capace di ristabilire l’equilibrio in una regione da cui avrebbe potuto svilupparsi un’onda sismica di portata internazionale. Come sta avvenendo oggi. Bush, quindi, non è la causa del terremoto islamista che sta squassando il medio oriente, come ha brillantemente dimostrato Carlo Panella nei suoi recenti articoli su questo giornale; al contrario, l’azione di Bush ha ritardato l’avanzata islamista nella regione, infliggendole colpi durissimi. Bush si è posto autorevolmente nel mainstream della politica estera americana quale si era venuta configurando per tutto il Ventesimo secolo, la cui storia aveva affidato al paese nordamericano un ruolo fondamentale di conservazione e regolazione della stabilità del sistema politico internazionale.

 

Si tratta di un ruolo cui gli Stati Uniti non possono sottrarsi. Non perché devono continuare a essere i “benefattori” dell’umanità, ma perché essi stessi, venendo meno al loro ruolo di potenza equilibratrice dello scenario internazionale, mettono a rischio la propria sicurezza e la sicurezza stessa di quel complesso straordinario di valori che l’occidente si è dato attraverso i secoli. La questione della sicurezza – hanno affermato i contestatori di Bush e, ancor più, gli anti americani di tutte le risme – sarebbe la giustificazione per ogni intervento americano in campo internazionale.  E’ proprio così, ma non per le ragioni legate alla solita, deprimente accusa all’America “imperialista”. Quando l’Afghanistan fu un vuoto politico e lì si stabilì il terrorismo jihadista, proprio da quel territorio scaturì un attacco formidabile agli Stati Uniti. Perché? Perché gli Stati Uniti sono il numero uno del mondo libero; perché gli Stati Uniti hanno sprigionato e sprigionano la forza vitale dell’individualismo liberale; perché gli Stati Uniti sono la parte più potente del mondo degli infedeli, o meglio di coloro che, invece, sono fedeli al retaggio della libertà occidentale; perché gli Stati Uniti sono… gli Stati Uniti, cioè il nemico numero uno dei totalitari di ogni colore.

 

Facciamo un altro esempio. Quando Saddam Hussein tentò in due mosse di sconvolgere il medio oriente (la guerra contro l’Iran e l’invasione del Kuwait), minacciando da vicino un alleato degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, e ancor più Israele, i due Bush, in tempi diversi, intervennero. Ma la minaccia portata a Israele metteva a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti? Sì, con ogni evidenza. Perché Israele rappresenta l’avamposto della civiltà occidentale, cioè il cuore pulsante, vitale del suo mondo valoriale, quel mondo degli infedeli che è stato ed è il pericolo storico per l’espansionismo islamico. I presidenti americani del tempo, fedeli interpreti della tradizione americana nelle relazioni internazionali e del ruolo equilibratore svolto storicamente dagli Stati Uniti nello scenario internazionale, non si sottrassero al loro dovere. Il crollo di Israele sarebbe stato e sarebbe oggi il moltiplicatore infernale del radicalismo terrorista islamico, l’annuncio della vittoria finale dei fedeli contro gli infedeli, l’anticipazione del trionfo planetario dell’utopia islamista, come ha ben scritto Panella. E gli Stati Uniti sarebbero direttamente coinvolti in questo drammatico squilibrio, come i principali interpreti di un mondo antagonista rispetto al totalitarismo islamico. Dopo l’avventura laica dell’utopia nazionalsocialista e comunista, ora il progetto, questa volta religioso, di costruzione dell’“uomo nuovo” è passato nelle mani del jihad islamico, il nuovo totalitarismo.

 

La politica internazionale di Barack Hussein Obama non può essere compresa se non la si inserisce nell’alveo della tradizione internazionalistica americana. Ma una volta compiuta quest’operazione, ne scaturisce uno stridore incomprensibile, per molti versi inaccettabile per i valori del mondo occidentale, se il mondo occidentale non fosse in una specie di stagnazione valoriale. Barack Hussein Obama è figlio di questo mondo di stagnazione valoriale. Barack Hussein Obama è estraneo alla tradizione politica americana, soprattutto per ciò che riguarda il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Tutto ciò è definito pragmatismo, ma il pragmatismo non può essere avulso da un solido contesto di valori e tradizioni. Quello di Barack Hussein Obama è un pragmatismo cieco, privo di una visione politica, come le sue mosse in politica internazionale hanno dimostrato in modo inequivocabile. Vediamole in ordine cronologico.

 

Sulla spinta di un’opinione pubblica stanca di guerre, Obama ha annunciato e poi di fatto realizzato abbastanza rapidamente il ritiro americano sia dall’Afghanistan che dall’Iraq, lasciando un pericoloso vuoto di potere nel primo e abbandonando il secondo quando ancora si andava configurando uno scenario di partecipazione democratica. Un errore imperdonabile, perché ora sia nell’uno che nell’altro paese le forze del terrorismo islamico si vanno ricollocando. Sarebbe veramente terribile se proprio nell’Afghanistan si ricreasse, in qualsiasi forma, quel centro di terrorismo che ha colpito gli Stati Uniti l’11 settembre. L’Iraq, d’altra parte, è oggi oggetto di un attacco a tutto campo delle forze terroristiche dell’Isis. Questo è stato l’esordio catastrofico della politica estera di Obama, di un presidente americano che per assecondare il pur comprensibile sentimento popolare ha rinunciato a valutare con lucidità gli interessi strategici del proprio paese in una regione che è stata ed è tuttora il focolaio del terrorismo islamico anti americano.

 

I fatti di Libia sono stati l’esempio più clamoroso dell’insipienza obamiana. Assecondando il velleitarismo di Sarkozy, senza una valutazione obiettiva delle conseguenze regionali dell’eliminazione del regime di Gheddafi, accodandosi a una “primavera” libica priva di concrete prospettive e senza valutare gli impulsi anti americani presenti in quel moto (e privando l’ambasciata americana a Bengasi della necessaria protezione, cosicché lo stesso ambasciatore americano, Christopher Stevens, è stato barbaramente trucidato), Obama ha compiuto un capolavoro di dilettantismo politico. Successivamente, l’altra “primavera” araba, quella egiziana, ha confermato l’incapacità di Obama di gestire le crisi regionali. Prima ha sostenuto l’esponente dei Fratelli musulmani, Morsi, poi, caduto Morsi, si è acconciato al regime di al Sisi, senza capire nulla di ciò che stava avvenendo. La spiegazione è semplice: quando un presidente americano rinuncia consapevolmente e per progetto al ruolo del proprio paese nella politica internazionale, privandosi di una visione politica in quel campo fondamentale per una grande potenza come gli Stati Uniti, finisce per non raccapezzarsi più quando i fatti lo costringono ad assumere una posizione politica. Russia e Iran godono, capendo bene che la regione mediorientale può essere a loro disposizione. Infine, gli ondeggiamenti di Obama nella crisi siriana hanno dato uno spettacolo triste di un paese che ha perso la bussola del proprio ruolo internazionale. Ora sono proprio gli Stati Uniti di Barack Hussein Obama a mostrare un vuoto allarmante di iniziativa politica che non promette nulla di buono.

 

Antonio Donno è professore ordinario di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università di Lecce. Tra i suoi libri, “In nome della libertà. Conservatorismo americano e Guerra fredda” (2004) e “Barry Goldwater. Valori americani e lotta al comunismo” (2008)

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