Barack Obama (foto Ap)

Il ritardo dell'occidente

Paola Peduzzi

Ci volevano due reporter americani ammazzati dallo Stato islamico con una coreografia spietata per fare quello che migliaia di morti ammazzati prima non hanno fatto: costringere Barack Obama a pensare a una strategia su Siria e Iraq.

Milano. “Non ci faremo intimidire dallo Stato islamico”, ha detto ieri il presidente americano, Barack Obama, in visita a Tallinn, prima dell’appuntamento di oggi in Galles per il vertice della Nato dall’agenda fitta, jihadisti da una parte e Russia dall’altra. “Lo Stato islamico smetterà di esistere”, ha rincarato il premier britannico, David Cameron, ribadendo che si sta facendo tutto il possibile per creare una coalizione di volenterosi formata dai paesi dell’area mediorientale, che non sia scambiata per un intervento occidentale – sia mai – ma che abbia un sostegno internazionale forte e chiaro. Le pressioni per un intervento in forze contro lo Stato islamico sono grandi, il Congresso americano rumoreggia contro il presidente “we-don’t-have-a-strategy-yet” e anche i sondaggi popolari mostrano che l’opinione pubblica, negli Stati Uniti ma anche in Europa, sta cambiando: la brutalità dello Stato islamico non è peggiore di quella che era poche settimane fa, prima del video dell’uccisione del giornalista James Foley replicato nel suo orrore con Steven Sotloff, ma i “messaggi all’America” lanciati dai jihadisti sono arrivati agli occhi e alle orecchie di chi può far cambiare atteggiamento anche al presidente più riluttante di sempre.

 

Nessun briefing dell’intelligence, nessuna esecuzione di massa, nessuna arma chimica lanciata sui civili erano riusciti finora, in tre anni, a convincere Obama della necessità – dell’urgenza – di un intervento. Ma se i sondaggi dicono che una reazione determinata, anche militare, sarebbe necessaria, ecco che anche il presidente insofferente ai falchi che dai loro salotti gli dicevano – banalità – che a non fare niente prima si dovrà fare troppo dopo, s’è mosso. “I loro atti orribili – ha detto Obama ieri – ci uniscono e ci rafforzano nella nostra decisione di combattere questi terroristi. Coloro che fanno l’errore di colpire gli americani impareranno che noi non dimentichiamo e che il nostro raggio d’azione è ampio, e che giustizia sarà fatta”. La giustizia che, nella formulazione di strategia più compiuta pervenuta al momento (ed è tutto dire), viene richiesta prima di tutto dagli stati della regione, come sottolinea Cameron, dai curdi e da Baghdad, sono loro che lo chiedono e noi rispondiamo: “Se continuiamo in questo modo, chiedendoci come possono operare i paesi vicini a Iraq e Siria, come possiamo aiutarli, come possiamo difendere al meglio il nostro interesse nazionale e tenere i nostri popoli al sicuro, l’approccio è quello giusto”.

 

Ill cinismo non è svanito, nell’occidente che finge di aver avuto una brutta sorpresa quando Fallujah è caduta per mano dello Stato islamico a Natale scorso, cioè nove mesi fa. L’eventuale intervento in Siria – richiesto a più voci, visto che è in quel vuoto lì, vuoto di idee, vuoto di leadership, che lo Stato islamico ha potuto prosperare indisturbato – è ancora allo studio, ci sono fattori legali da valutare, non si può bombardare uno stato che non te lo richiede, neppure se è guidato da Bashar el Assad, che “deve andarsene”, come hanno ripetuto ininterrottamente i leader occidentali negli ultimi tre anni, forse sperando che a furia di dirlo Assad li avrebbe ascoltati. E’ lo stesso cinismo per cui si armano le milizie sciite che fino a due anni fa facevano saltare per aria americani in Iraq anche solo per divertimento, ma i ribelli siriani, che resistono da tre anni senza aiuti, senza rifornimenti, senza credito politico contro la ferocia di Assad, no.

 

La strategia può attendere, insomma, le contraddizioni ci sono sempre, ma se l’opinione pubblica lo chiede allora vale la pena muoversi. I filmati dei reporter uccisi hanno cambiato la percezione del conflitto, ribaltando uno dei capisaldi del tanto sbertucciato interventismo liberal dei Bush e dei Blair: non facciamo quel che è popolare, facciamo quel che è giusto. Ora si fa soltanto quel che è popolare, sperando che sia anche giusto. Forse bastava muoversi un po’ prima, almeno prima che lo Stato islamico arrivasse a creare messaggi spietatamente perfetti, ma quando agli americani non fregava nulla dei siriani e degli iracheni morti ammazzati a migliaia, Obama assisteva ai meeting sulla crisi siriana smanettando il telefono e masticando annoiato chewingum: senza consenso, non c’era bisogno nemmeno di un’idea di mondo.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi