Il segretario di Stato Usa John Kerry con re Abdullah (Foto AP)

Arabia assopita

Karen Elliott House

I sauditi sono i più minacciati dall’avanzata dello Stato islamico. Perché allora non bombardano?

Per l’Arabia Saudita è arrivato il momento di farsi avanti. C’è ampio consenso sul fatto che i barbari in tunica nera dello Stato islamico costituiscono una minaccia grave innanzitutto per i paesi arabi confinanti e poi per l’Europa e gli Stati Uniti. Ma nel dibattito su come un’America riluttante e un’Europa timida dovrebbero rispondere alla minaccia, non c’è discussione su quello che dovrebbe fare l’Arabia Saudita. L’Arabia è il più ricco paese della regione. Ha di gran lunga l’aviazione più potente, con centinaia di aerei sofisticati forniti dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra. Con le sue riserve di petrolio e il ruolo di luogo di nascita dell’islam, il regno è un obiettivo certo per le brigate in espansione dello Stato islamico. Quindi perché non ci sono piloti sauditi ben addestrati che bombardano Mosul in Iraq o le basi di comando e controllo dello Stato islamico in Siria? Il problema è l’assenza di volontà anche nel perseguimento dei propri interessi. La casa di Saud, che ha governato il regno quasi ininterrottamente per più di 270 anni, storicamente è sopravvissuta schivando e tessendo, cercando di evitare gli scontri e di soddisfare tutti. Per questa ragione, il regno ha fatto affidamento su altri – quasi sempre gli Stati Uniti – per la sua sicurezza. La strategia dell’ostrica potrebbe non essere più sostenibile. Ora che anche il presidente Obama sta schivando e tessendo in Siria e si sta aprendo all’Iran, i sauditi hanno molte ragioni per ritenere che gli Stati Uniti non possono essere un protettore affidabile.

 

Lo Stato islamico costituisce anche una sfida per la legittimità della casa di Saud come sovrana dell’Arabia Saudita. Fin dal Diciottesimo secolo, i re della casa Saud hanno giustificato il loro dominio sostenendo di essere i protettori e sostenitori del vero islam – nella sua versione austera predicata da Muhammad ibn Abd al Wahhab. Ora Abu Bakr al Baghdadi, il capo dello Stato islamico, dichiara la creazione del Califfato islamico, e in pratica contrassegna l’Arabia Saudita e i Saud come usurpatori e se stesso come il protettore del vero islam.

 

Lo Stato islamico è dunque una vera minaccia e il bisogno di rispondergli è inevitabile. Ma la famiglia reale teme di essere vista dai sauditi – soprattutto dall’establishment religioso dei wahabiti e dai giovani maschi fondamentalisti – come l’avversario di quello che molti considerano l’atteso arrivo del Califfato islamico che i governanti Saud non sono riusciti a imporre. Almeno 1.600 giovani sauditi, secondo il ministero dell’Interno di Riad, si sono uniti allo Stato islamico nonostante un decreto reale che imponeva fino a 20 anni di prigione per chi l’avesse fatto. Ancora più giovani sauditi usano i social network per invocare la liberazione della Mecca dai Saud. Ricchi uomini sauditi hanno aiutato finanziariamente lo Stato islamico. Alcuni di questi finanziatori potrebbero essere in cerca di una polizza di assicurazione nel caso di una vittoria dello Stato islamico, ma altri sembrano condividere il desiderio di un revival wahabita in un regno che ritengono corrotto e ingiusto – un regno in cui i governanti mettono la loro dissolutezza prima dei bisogni del gregge di Allah. Il sostegno interno per il Califfato continuerà a crescere insieme allo Stato islamico.

 

Re Abdullah, come il presidente Obama, finora ha parlato molto e agito poco. Giorni fa ha criticato le gerarchie religiose per la loro “pigrizia” e per il loro “silenzio” nel non aver criticato i terroristi dello Stato islamico. Settimane dopo il Gran Mufti saudita, il più grande ufficiale religioso del paese, infine ha dichiarato che “l’estremismo, il radicalismo e il terrorismo” non hanno “niente a che vedere con l’islam e sono il nemico numero uno dell’islam”.

 

Le parole sono appropriate ma l’unica azione del regno finora è stata donare 100 milioni di dollari al Centro per l’antiterrorismo delle Nazioni Unite, una mossa che difficilmente rallenterà lo Stato islamico. Nel frattempo, l’aviazione saudita rimane a terra. Secondo le stime dei sauditi nel regno ci sono almeno 250 aerei pronti al combattimento, mezzi per il rifornimento, il Sistema di allarme e controllo aviotrasportato americano e almeno 20 mila membri di personale d’aviazione. Pochi bombardamenti sauditi da soli potrebbero non essere decisivi militarmente, ma dimostrerebbero che l’autoproclamato guardiano dell’islam è pronto ad affrontare i fanatici islamici. Quest’azione da parte dei sauditi faciliterebbe azioni militari più risolute contro lo Stato islamico da parte di altri paesi musulmani e dell’occidente.

 

E’ tempo di affrontare lo Stato islamico in Siria e in Iraq, non di nascondersi a Riad. Forse se i sauditi si faranno avanti, lo faranno anche Obama e il Congresso.

 

Karen Elliott House
Copyright Wall Street Journal, per gentile concessione di MF/Milano Finanza

 

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