Un frame della decapitazione del giornalista americano James Foley

Noi, i sacrifici umani e i tagliagole

Alessandro Giuli

Gli sgozzamenti praticati dai miliziani dello Stato islamico rievocano arcaici riti, oscuri e barbarici, debellati dall’occidente. Oggi sono la propaganda fide dei jihadisti aggiornata all’epoca della dipendenza seriale da social-network.

C’è qualcosa di perversamente arcaico – ed è un ossimoro, da un certo punto di vista – nelle immagini degli sgozzamenti elargite con generosità internettiana dai tagliagole dello Stato islamico. Qualcosa che ha poco a che vedere con il concetto di giustizia sommaria o d’isolata crudeltà bellica. Qualcosa che richiama, in modo freddo e lugubre, una pratica oscura antichissima e resa tabù dalle maggiori civiltà conosciute: il sacrificio umano. La forma è ibrida, spettacolarizzata; “contaminata” perfino, direi, dalla presenza di telecamere che ne fanno un frammento sanguinario della propaganda fide jihadista aggiornata ai tempi della dipendenza seriale da social-network. Ma la sostanza è la stessa: una liturgia che non si avvale del colpo in testa o del lampo istantaneo e secolarizzato d’una scure o di una ghigliottina. Al contrario: nello sgozzamento rituale, accompagnato da formule di preghiera anche esili ma necessitanti, gioca una parte decisiva la consacrazione della vittima e del suo sangue destinato a colare lento sulla terra, direttamente o attraverso una canalina predisposta sopra l’altare. Nel lessico pontificale romano, le vittime del sacrificio sono dette inferiae, poiché appartengono agli dèi inferi. Ce lo rammenta l’immagine vergiliana della cartaginese Didone, nel libro IV dell’Eneide, che viene consacrata a Dite da Iride, inviata da Giunone, la quale recide una ciocca di capelli all’infelice sovrana per completarne il suicidio. Qualcosa di simile avveniva in occasione dei sacrifici cruenti animali, quando alla bestia, prima dello svenamento, veniva tagliato un ciuffo di peli dal capo per consegnarlo all’arsione sulla fiamma dell’ara. In quel caso l’offerta era duplice: il sangue immolato si saturava di virtù magica destinata ai dèmoni sotterranei, mentre il soffio vitale s’innalzava verso il cielo abitato dal nume beneficato nel sacrificio (era addirittura credenza che in tal modo all’animale si potesse assicurare un post mortem così felice da contemplare un’altra possibilità di vita in un regno superiore, di qui le cure speciali che gli erano assegnate in vita). Ma il sacrificio umano no, quello è unidimensionale e la vittima ha gli occhi rivolti verso il basso.

 

Che si trattasse di Ifigenia, immolata dal padre Agamennone in Aulide per guadagnare venti favorevoli e pacificarsi Diana (che però si commuove e la sostituisce con una cerva); che si trattasse dei prigionieri troiani sgozzati da Achille sulla tomba di Patroclo o della figlia di Priamo, Polissena, sacrificata da Neottolemo, caduta Ilio, sulla tomba del Pelìde; che si trattasse dell’uomo-pharmakon espiatorio, ucciso dopo essere stato proclamato depositario del sudiciume accumulatosi sul karma delle prime poleis, o dei due Galli sacrificati in Campo Marzio da Cesare, pochi giorni prima d’essere anch’egli “sacrificato” dai cesaricidi: in ognuna di queste circostanze, la civiltà occidentale percepisce e racconta il sacrificio umano come un unicum eccezionale, un male innaturale, il tuffo in una palude di sangue barbarico da espiare mediante altri e alti riti semi sconosciuti. E’ per questo che sia Roma sia l’Ellade vissero con sdegno conflittuale il fatalismo tenebroso dei Punici, sacrificatori di bambini al loro insaziabile Moloch: “Là si passavano per il fuoco i fanciulli, al fine di ottenere con la rinunzia a ciò che si aveva di più caro il favore degli dèi (o di placarne l’ira)”, ricordava Sabatino Moscati, il maggior esperto del mondo fenicio, senza aggiungere che quelle arsioni offrivano in olocausto al santuario di Moloch (tofèt) l’intera possibilità vitale dei fanciulli immolati, pasto poderoso per dèmoni antropofagi. Non per caso Roma, l’anti Cartagine, ebbe timore dei Punici e per tre volte, pur di uscire vittoriosa dalla guerra contro la sua antagonista, costrinse se stessa a ricorrere al sacrificio umano: l’interramento nel Foro Boario di due coppie di Galli e di Greci, un espediente iscritto immediatamente nella categoria dell’aberrazione nefasta (nefas), un orrore giudicato indispensabile per debellarne di peggiori e tale da richiedere altri (incruenti? di certo non umani) sacrifici annuali sul luogo di quelle sepolture, riti misteriosi “di cui non si può parlare, cui non è lecito assistere”, dice Plutarco. Lo stesso Cesare, quando ordinò l’uccisione d’una coppia di Galli rivoltosi in Campo Marzio, lo fece meno da Pontefice massimo che non da Archidruido: un messaggio barbarico per barbari Celto-Germani e irriproducibile se non nella loro dimensione non ancora romanizzata, come avrebbero tramandato con raccapriccio gli scopritori di quei resti dei legionari di Varo sacrificati dai Germani di Arminio sulle rocce-altari della selva senza luce di Teutoburgo (siamo in età augustea).

 

Barbarie, dunque, e torniamo così ai tagliagole mediorientali contemporanei e alla tremenda irruzione del sacro che stanno infliggendo ai loro nemici – sacer è un lemma spaventoso e sta per: dedicato all’altro dall’umano, uscito dal consesso civile e appartenente a leggi intangibili dalla mano dell’uomo. Chi sono, davvero, costoro? Invocano Allah il misericordioso, mentre fanno sgorgare a terra sangue condannato come “infedele”, ma sembrano anche nutrire una versione mostrificata, ctonia e scatenata della sua paredra femminile: Al-lath, quella “madre di tutti gli dèi” adorata nel mondo arabo pre islamico e identificabile con la Pietra nera della Mecca: resa apparentemente ineffettuale da Maometto nel suo tentativo di unificare in senso abramitico il politeismo arabo, oggi la larva di Al-lath, come una dea negletta trasformatasi in malattia desertica, sembra schiudere le sue fauci infernali per bere il sangue di chi non si pieghi all’allucinazione del Califfato. Non so se sia questo l’islam che divora se stesso insieme con il mondo che gli è straniero, temo però che non lo si possa soltanto derubricare come un semplice regolamento di conti fra monoteismi dotati della stessa filogenesi. Se l’occidente non recupera un punto di vista arcaico, o romano, oserei, il suo destino potrebbe un giorno essere quello della vittima inferia, come già accade agli Yazidi.

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