Mario Draghi (foto Ap)

Perché la deflazione spaventa l'Europa (ma non la Fed americana)

Tommaso Monacelli

Il calo dei prezzi, tra sintomi e cause reali. La testuggine della Fed e gli insegnamenti per il cauto Draghi.

In Europa torna ad aleggiare lo spettro della deflazione, in stile Giappone. Il dibattito imperante dà per scontato che la deflazione sia “un male”. Di per sé la deflazione non è però né un bene né un male. E’ solo un sintomo. Sono altri due, in realtà, i fattori cruciali (mai sottolineati) che rendono la deflazione un pericolo: (i) la rigidità nell’aggiustamento dei prezzi (nella realtà i prezzi dei beni di consumo, a differenza di quelli delle attività finanziarie, si aggiustano molto lentamente); (ii) il vincolo zero sui tassi d’interesse nominali (che non possono essere negativi, altrimenti chi risparmia preferirebbe sempre tenere i propri soldi sotto il materasso: nessuno presterebbe 100 euro per riceverne indietro 99). E’ utile quindi chiarire quando e perché la deflazione debba preoccupare.

 

Supponiamo che nell’economia aumenti il desiderio di “risparmiare”, magari perché gli agenti sono prudenzialmente più incerti. Non importa la causa. Un “eccesso di risparmio” vuol dire meno domanda di consumo oggi. Per una banale legge economica, il prezzo di consumare oggi (invece che domani) deve quindi scendere (perché la domanda è scesa). Ma il prezzo di “consumare oggi invece che domani” altro non è che il tasso di interesse reale (cioè il tasso nominale al netto dell’inflazione attesa).

 

Nell’economia sono quindi in atto spinte che richiedono tassi di interesse reali più bassi. Si noti, potenzialmente anche (molto) negativi (diciamo meno 10 per cento). Un primo modo di generare tassi reali negativi è un istantaneo aumento dell’inflazione. I tassi reali scendono, e la spinta a consumare meno oggi (la premessa del nostro ragionamento) viene contenuta. L’economia non soffre né di deflazione, né di recessione. Questo scenario, solo teorico, è tuttavia possibile solo se i prezzi si aggiustano istantaneamente, una condizione che non vale nella realtà.

 

Un altro canale per raggiungere il necessario calo dei tassi reali è, per data inflazione, una discesa dei tassi nominali. Questo è il lavoro delle Banche centrali che infatti in tutto il mondo hanno abbassato i tassi in modo drastico dopo la crisi del 2008. Ma i tassi nominali non possono scendere più di tanto. Se l’economia richiede tassi reali molto negativi, la Banca centrale fa il massimo possibile: porta i tassi a zero. Tuttavia ciò potrebbe essere insufficiente, soprattutto se il calo iniziale della domanda di consumo è molto grande.

 

La condizione (ii) (i tassi nominali non possono essere negativi) diventa perciò vincolante. Si crea quindi un gap tra il tasso di interesse reale che l’economia richiede per aggiustarsi (come detto, meno 10 per cento) e quello effettivo. Ovvero, i tassi reali sono “troppo alti” rispetto a quelli necessari a riassorbire l’eccesso di domanda di risparmio. Deve perciò entrare in gioco un altro meccanismo per riassorbire tale eccesso: questo meccanismo non può essere altro che una caduta del reddito reale (il pil). Una recessione, quindi. Potenzialmente anche molto ampia.

 

Perché, in questo scenario, abbiamo anche deflazione? Perché nel breve periodo (se vale la condizione (i)), attività economica reale e inflazione sono tipicamente correlate (l’inflazione aumenta quando l’economia si surriscalda, e viceversa). Se la risposta, in questo scenario, fosse maggiore inflazione (invece che deflazione), allora non potremmo avere il necessario calo nell’attività economica. Come detto, il reddito reale deve calare per riassorbire l’eccesso di risparmio. Quindi anche l’inflazione deve calare. Eccoci in deflazione.

 

Riassumendo, la deflazione non è altro che un sintomo “a valle” di una situazione “a monte” di eccesso di domanda di risparmio nell’economia.  Ma la deflazione si verifica solo in presenza della condizione (i): prezzi lenti ad aggiustarsi. Una sorta di condizione di esistenza.

 

Perché la deflazione è un “male”, quindi? In realtà lo è se (e solo se) anche la condizione (ii) si verifica: cioè si raggiunge il vincolo zero sui tassi di interesse nominali. In tal caso, la Banca centrale è privata del proprio strumento tradizionale per stimolare l’economia. Questo è il punto centrale. Se tale vincolo sui tassi zero non esistesse, e cioè se i tassi nominali potessero essere negativi, la deflazione sarebbe un problema irrilevante. In questo scenario, l’iniziale (ipotetica) caduta della domanda di consumo sarebbe immediatamente neutralizzata da una diminuzione drastica dei tassi di interesse nominali da parte della Banca centrale, fino a raggiungere, se necessario, territorio negativo. Di fatto stimolando i consumi, e quindi neutralizzando ogni spinta recessiva.  Senza il vincolo dei tassi nominali a zero, niente crisi, e niente deflazione. Il problema per una Banca centrale, quindi, non è la deflazione di per sé. Bensì un altro, ben più serio, e ampiamente sottovalutato prima della crisi del 2008: come stimolare l’economia quando il limite dei tassi a zero diventa vincolante per una Banca centrale?

 

Varie Banche centrali del mondo, dal 2008 in poi, hanno messo in atto un menu di strumenti alternativi. La Federal reserve statunitense è stata sicuramente quella più innovativa, con almeno tre grandi programmi: (i) Quantitative easing (Qe); (ii) Credit easing (Ce); (iii) Forward guidance (Fg).

 

Con il Qe, la Banca centrale acquista titoli di stato detenuti dalle banche e accredita alle banche stesse maggiori riserve. Il risultato è un incremento della base monetaria, con l’obiettivo di stimolare l’aumento dei prezzi e quindi combattere la spinta deflazionistica. Con il Ce, la Banca centrale acquista asset privati (bond, Abs, eccetera), con l’obiettivo di farne aumentare i prezzi, tipicamente in caduta libera in una crisi finanziaria. Con la Forward guidance (Fg), nella sua forma più superficiale, la Banca centrale si impegna a mantenere i tassi a zero per un periodo prolungato di tempo. A un certo punto la Fed ha però messo in atto una evoluzione della Fg, specificando che avrebbe mantenuto i tassi a zero “fino a quando la disoccupazione non fosse scesa sotto il 6 per cento” (cosiddetta “Forward guidance condizionata”).

 

E’ ancora aperto il dibattito su quale, tra questi tre strumenti, sia stato veramente efficace per combattere la crisi negli Stati Uniti. Sono abbastanza chiari due punti, però. Primo, la politica di Qe è stata probabilmente la meno rilevante. Il peso di Ce e Fg condizionata è stato certamente cruciale. Il primo è stato decisivo nella fase acuta di panico sui mercati finanziari, di fronte a incrementi vertiginosi del premio al rischio nei mercati interbancari e dei bond. La seconda è stata l’architrave della politica non convenzionale della Fed per riassorbire la disoccupazione.

 

In secondo luogo, non è così rilevante il contributo di ciascuna misura individualmente. Quello che ha orientato l’economia in modo corretto è stata la strategia di “robustness”. Vale a dire, l’aver messo in campo tutte queste misure contemporaneamente, spesso anticipando le aspettative dei mercati. Soprattutto, senza presumere fideisticamente che una misura più delle altre potesse essere risolutiva, ma confidando nel loro effetto congiunto. Viene spontaneo chiedersi quanto tempo, e quante opportunità di intervento, abbia già sprecato la Banca centrale europea.  

 

(Tommaso Monacelli è professore di Economia monetaria all’Università Bocconi)

Di più su questi argomenti: