Il presidente della Bce Mario Draghi con il ministro dell'Economia Carlo Padoan (Foto Ap)

¡adelante! o con juicio?

Tutti tirano per la giacca Draghi che però ha i suoi motivi per attendere. Eccoli

Marco Valerio Lo Prete

Padoan e Corriere sferzano la Bce. Ciò che Francoforte ha già fatto, ciò che spetta ai governi. Limiti tecno-politici.

Roma. Mario Draghi è atteso venerdì alla sua prossima apparizione pubblica. Domani si aprono infatti i lavori del simposio estivo di Jackson Hole, organizzato dal 1978 dalla branca di Kansas City della Federal reserve. Dopodomani in quella sede, in Wyoming, interverrà il governatore della Fed, Janet Yellen, a suo agio su un tema a lei caro come quello del mercato del lavoro, e subito dopo toccherà al presidente della Banca centrale europea. Ma un intervento di Draghi è reclamato con toni sempre più vigorosi – al limite anche critici – da questa parte dell’oceano Atlantico, dall’Italia in particolare. I dati che hanno certificato lo stallo nelle prime tre economie dell’Eurozona nel secondo trimestre 2014 – Germania, Francia e Italia, appunto –, associati a quelli che dimostrano una sinistra tendenza disinflazionistica in corso (prezzi in giù), hanno resuscitato le richieste di un sostegno straordinario da parte della Bce, richieste che si erano parzialmente sopite dopo il “whatever it takes” pronunciato da Draghi nel 2012.

 

Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha utilizzato toni ultimativi in un’intervista di domenica scorsa alla Bbc, facendo appello a Francoforte prim’ancora che a Bruxelles: “Quello che vorrei vedere è che tutti facessero la loro parte, che vuol dire per la Bce essere coerente nel portare l’inflazione nuovamente vicina al 2 per cento che è una cifra ragionevole, ma molto lontana dai livelli attuali”. Insomma, mentre ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ironizzava su Twitter sul fatto che “quello che scrivono i giornali è così segreto che non lo sa nemmeno l’esecutivo”, le richieste di Roma a Draghi sono andate in mondovisione. Da giorni poi anche il Corriere della Sera, quotidiano d’establishment per eccellenza che lunedì ha rilanciato in apertura le parole di Padoan (“La Bce faccia la sua parte”), ospita commenti esortativi verso Draghi da parte delle sue firme di punta, da Francesco Giavazzi (considerato vicino a Draghi) a Lucrezia Reichlin (con un passato in Bce). Forse che l’ex governatore della Banca d’Italia sia l’unico a non aver rilevato l’aggravarsi della situazione economica? Difficile crederlo.

 

Piuttosto sono di varia natura i motivi che lo hanno spinto in questi giorni a un atteggiamento apparentemente flemmatico.
Innanzitutto, la Bce è già in movimento, fanno notare a Francoforte. “Draghi vuole attendere gli effetti di misure annunciate a giugno e non ancora operative”, dice al Foglio Francesco Papadia, già direttore generale per le Operazioni di mercato della Bce. Il riferimento è al seguente trittico: interessi negativi sui depositi, operazioni di rifinanziamento di lungo termine mirate (Tltro) che dovrebbero garantire tra i 450 e gli 850 miliardi di nuovi fondi per le banche e preparazione all’acquisto di Asset-backed securities (Abs). “L’avvio del Tltro coinciderà con la fase finale della valutazione completa, o comprehensive assessment, dei bilanci bancari europei. A quel punto la sinergia tra i nuovi finanziamenti e le condizioni teoricamente migliori degli istituti potrà contribuire alla ripresa del credito”. Almeno questi sono i piani per settembre, dopodiché ci vorrà qualche mese per valutare gli effetti. Prima di allora sarà anche più difficile per Draghi convincere i colleghi della Bce a percorrere strade del tutto innovative.

 

Ai governi che lo esortano a fare di più, italiano e francese in primis, il presidente della Bce ha poi già inviato messaggi più che espliciti in tutte le sue ultime conferenze stampa: riforme strutturali, riforme strutturali, riforme strutturali. Né si esaurisce qui, secondo gli addetti ai lavori, il compito dei governi che volessero facilitare una politica monetaria più espansiva. Si prendano per esempio gli acquisti nel mercato delle attività cartolarizzate (Abs), che potrebbero alleviare la stretta creditizia e su cui la Bce venerdì scorso ha detto di aver “intensificato” i lavori preparatori. Carlo Altomonte, economista della Bocconi, ha curato – per il think tank brussellese Bruegel Institute – uno studio in cui si esaminano le condizioni per una piena efficacia di un intervento simile. “Agire immediatamente per acquistare” gli Abs esistenti, vi si legge, “produrrebbe probabilmente un effetto limitato, data la taglia contenuta del mercato in questione, stimato a 68 miliardi di euro” in tutta l’Eurozona. Ai governi, secondo Altomonte (e anche secondo i ricercatori della Bce e della Bank of England), spetterebbe il compito di “rivitalizzare” questo mercato. Uniformando il più possibile le legislazioni nazionali, e in generale rilegittimando uno strumento caduto in disgrazia agli occhi dei regolatori dopo gli eccessi finanziari pre-2008. 

 

Inoltre ci sono ragioni tecniche, giuridiche e politiche che frenano scelte più tempestive, con cui Draghi e colleghi si confrontano da mesi. Ragioni non tutte ammissibili pubblicamente, almeno a Francoforte.   

 

Wolfgang Münchau, editorialista del Financial Times, domenica ha lodato “i toni di sfida” che Renzi ha riservato a chi pensa di poter dettare le riforme italiane dall’esterno (vedi Draghi): “Avrebbe dovuto aggiungere che non accetta consigli da un banchiere che non raggiunge i suoi stessi obiettivi”, ha scritto Münchau. Il quale ha sì riconosciuto che “la maggior parte” delle misure da lui suggerite per sostenere l’economia sarebbero considerate “illegali”, ma poi ha lanciato una stilettata di altro genere: “La Bce sta fallendo (…) perché ha fondato le sue scelte su modelli economici scadenti”. “Una cosa la Bce potrebbe farla, senza incappare in problemi legali: abbandonare il modello macroeconomico Smets-Wouters”. Ci sarebbe questo modello dietro gli errori di previsione su pil e inflazione della Bce. (O addirittura si tratta di una frecciatina ad personam per Frank Smets, autore del modello in questione, già capoeconomista della Bce e promosso lo scorso anno proprio da Draghi a suo consigliere speciale?). Tommaso Monacelli, docente alla Bocconi, parla senza mezzi termini di una “favola” raccontata dall’editorialista del Ft: “Una Banca centrale che decide le sue policy meccanicamente sulla base di un modello macroeconomico? Non c’è nulla di più lontano dalla realtà, e in particolar modo dall’effettivo funzionamento della Bce”, dice al Foglio. Peraltro il modello previsionale intitolato ai due economisti Smets e Wouters, “di per sé una sorta di summa di 20 anni di ricerca macroeconomica – spiega Monacelli – è stato ulteriormente raffinato proprio da altri economisti della Bce”. Münchau comunque non è l’unico a dubitare dei metodi scientifici usati dalla Bce. Ieri un report della banca d’affari francese Natixis metteva in fila tutti gli errori previsionali della Bce sull’inflazione, ultimamente sempre corretta al ribasso, e metteva in dubbio le fondamenta teoriche delle parole di Draghi sulle “aspettative di inflazione saldamente ancorate”: guardare solo ai tassi forward sull’inflazione attesa per il 2019-2024, come fa la Bce, non basterebbe più. 

 

E se invece fossero soprattutto gli attuali  vincoli giuridici della Bce a frenare Draghi? Ne è convinto Luigi Zingales, economista dell’Università di Chicago. Rileggendo il trattato istitutivo della Bce, e l’interpretazione che dello stesso ha dato il Consiglio direttivo, Zingales due giorni fa ha scritto sul suo blog: “L’obiettivo della Bce è un’inflazione europea al di sotto del 2 per cento. Se l’indice aggregato dei prezzi a livello europeo scende del 5 per cento, ma alcuni paesi (per esempio la Germania) hanno un’inflazione vicina al 2 per cento, cosa farà la Bce? Tutto lascia intendere che non si riterrà in dovere di agire per contrastare la deflazione. Il suo obiettivo è stato raggiunto”. Più che sullo statuto, Monacelli (Bocconi) punta invece il dito su “una governance della Bce che ciclicamente crea sfiducia nei mercati. Ci sono ostacoli potenzialmente superabili, come la necessità di un obiettivo di inflazione simmetrico del 2 per cento, diverso da quello attuale ‘vicino ma sotto il 2 per cento’ che più facilmente pende verso la deflazione. E poi ci sono resistenze politiche a nuove e urgenti scelte non convenzionali, resistenze che non possono che venire dai paesi dell’Europa del nord”. Il confine tra forzature giuridiche e braccio di ferro politico è labile. Così si torna alle solite resistenze dei “falchi” dell’ortodossia in seno all’Eurotower. E non è un caso se proprio i toni pessimisti sull’economia tedesca contenuti nel bollettino della Bundesbank di due giorni fa, più che gli strattoni in arrivo da Roma e Parigi, potrebbero spingere Draghi a mollare gli ormeggi.