Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi alla cerimonia di inaugurazione dei lavori del Canale di Suez (Foto Ap)

Esercito Spa: così al Sisi rimette le mani sul Canale di Suez

Redazione

Lo status quo è ora ristabilito. Via Morsi e il Qatar, dentro gli sponsor del Golfo che piacciono ai militari.

Roma. Quando lo scorso anno l’ex presidente egiziano Mohammed Morsi annunciò l’intenzione di avviare un progetto di ampliamento del Canale di Suez che riguardava anche Ismailia e Port Said, incontrò la ferma opposizione di una parte consistente degli egiziani. Il piano era ambizioso e prevedeva la creazione di un hub tecnologico e turistico tra il Mediterraneo e il mar Rosso. I ricavi portati dall’allargamento del bacino, assicurava Morsi, sarebbero aumentati venti volte rispetto ai volumi di allora, arrivando a 120 miliardi di dollari. Eppure, la reazione generale fu tutt’altro che entusiasta. La voce più insistente era che gli islamisti volessero vendere il canale al Qatar, loro principale finanziatore. La “semplice amicizia” con Doha, come veniva definita dai Fratelli musulmani, e anche le accuse di appoggio esterno per i combattenti islamici nel Sinai, sono state al centro della retorica anti Morsi, culminata con il colpo di stato del 2013.

 

Ora, con il governo dei militari, al Qatar sono subentrati Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi, come nuovi sponsor del progetto che intende trasformare il Sinai nella “Silicon Valley” egiziana. Il nuovo presidente Abdel Fattah al Sisi ha annunciato martedì in diretta tivù che i lavori saranno realizzati “entro un anno” e che l’investimento impegnerà 4 miliardi di dollari. Il progetto di ampliamento, spiegato nel dettaglio dal presidente dell’Autorità del canale, Mohab Mamich, è imponente: potranno transitare 97 navi mercantili al giorno (pesanti fino a 400 mila tonnellate), invece delle attuali 49, evitando il senso unico alternato per 72 chilometri sui 193 totali, grazie a degli scavi che ne allargheranno la portata. Secondo Mamish, i ricavi potrebbero aumentare del 259 per cento rispetto agli attuali 5 miliardi di dollari. Il progetto, giura al Sisi, “sarà completamente egiziano”. Tanto che ai cittadini in patria e all’estero sarà richiesto un contributo, rispettivamente di 14 e 100 dollari, per finanziare l’Offerta pubblica iniziale.

 

Al Sisi punta tutto sul progetto di Suez, un investimento a lungo termine fondamentale per stimolare l’economia stagnante. Sebbene l’ex generale abbia negato più volte il coinvolgimento dei paesi del Golfo nell’opera di ampliamento, Reuters ha anticipato, citando fonti militari, che uno dei consorzi che si sono aggiudicati l’appalto per la conduzione dei lavori è la saudita Dar al Handasah, un’impresa attiva nella costruzione di grandi opere in tutto il medio oriente e di cui l’esercito egiziano detiene una quota tramite l’Autorità ingegneristica militare. Al Handasah ha sbaragliato la concorrenza di multinazionali del calibro di McKinsey & Co. e James Cubitt and Partners. “I militari vogliono gestire il progetto nell’interesse della sicurezza nazionale”, hanno spiegato le fonti citate da Reuters. Ma che il piano di al Sisi segua piuttosto criteri economici è fuor di dubbio. Delle 14 società autorizzate a presentare un progetto per i lavori sul Canale lo scorso gennaio, solo una era egiziana (la “Arab contractors”) ed era controllata dall’esercito. Le altre appartenevano a fondi finanziari di Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi.

 

Finché non arrivò Morsi, che preferiva i petrodollari del Qatar, gli interessi dell’esercito nel Canale sono stati curati dal “Progetto di sviluppo del Canale di Suez”, una controllata statale gestita da militari in pensione con un bilancio annuale di svariati miliardi di dollari. L’esercito è anche azionista di quasi tutte le principali società che dopo il colpo di stato del 2013 hanno preso in gestione la costruzione di strade, tunnel e abitazioni per un giro d’affari complessivo di 1,5 miliardi di dollari. Il quotidiano tedesco Welt ha stimato che dall’inizio della rivoluzione del 2011 il patrimonio gestito dall’esercito è salito al 45 per cento dell’economia egiziana. Un’economia “grigia” su cui si sa poco o nulla, non essendo sottoposta a sistemi di sorveglianza parlamentare.

 

Mattanza allo stadio

 

L’annuncio di al Sisi segna così il completamento di un piano politico iniziato nel 2012, quando i Fratelli musulmani al governo cominciarono a minacciare gli interessi economici dell’esercito sul Canale. Suez e Port Said sono due ricche città-stato con notevoli benefici fiscali come il porto franco. Morsi ne aveva messo a rischio lo status privilegiato: promulgò una legge che limitava l’assunzione della manodopera locale impiegata nel polo industriale del canale, considerata troppo cara, e abolì il regime fiscale facilitato. Poi arrivò la strage del 1° febbraio 2012. Al termine di una partita di calcio contro i cairoti dell’al Ahly, a Port Said morirono 72 persone dopo una guerriglia scatenata all’interno dello stadio. La polizia non intervenne, permettendo che la mattanza si compisse. Il tribunale del Cairo impose le pene più severe ai tifosi di Port Said e allora fu il caos. I residenti scesero in piazza e minacciarono la chiusura del Canale. Chiedevano giustizia e contestavano i poliziotti, considerati “nemici della rivoluzione” e braccio armato dei Fratelli musulmani. Fu l’esercito a riportare la calma e i tank schierati per le vie della città furono accolti con sollievo dagli abitanti.

 

Port Said era diventato un laboratorio a cielo aperto per i generali: applicando uno schema simile al resto del paese, i militari avevano tratto vantaggio dall’odio verso la Fratellanza ed erano tornati a essere il paladino del popolo, tutelando i propri interessi economici. Fino ad arrivare al sollevamento di Morsi un anno più tardi.