John Kerry e Abdel Fattah al Sisi (foto Ap)

Al Sisi sarà anche un gangster, ma è l'unico alleato che può sistemare Gaza e Libia

Carlo Panella

Obama piega la sua politica estera al negoziato sull’Iran. Il presidente egiziano fa un’offerta diversa.

Barack Obama ha deciso di sacrificare all’accordo sul nucleare con l’Iran non soltanto i buoni rapporti con Israele, ma anche quelli con l’Egitto e l’Arabia Saudita. Il sigillo di questa funesta scelta è lo sgarro del progetto di tregua a Gaza su cui ha lavorato John Kerry che affidava il controllo della tregua a Gaza non al Cairo, bensì al Qatar e alla Turchia, le due nazioni che più ostacolano il nuovo corso egiziano di Abdel Fattah al Sisi, appoggiando i Fratelli musulmani. Il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, sostiene che “al Sisi è un dittatore illegittimo”, e si vede premiato dagli Stati Uniti con l’invito a mandare un corpo di spedizione  al di là dei confini presidiati da un esercito egiziano così umiliato. La mossa è tanto maldestra – una rottura così offensiva nei confronti del Cairo e Riad (accomunati dal contrasto alla Fratellanza), che innervosisce anche il rais palestinese Abu Mazen – che non può essere stata solo frutto della insipienza di Kerry, ma che corrisponde alla scelta strategica obamiana: dare una chance al negoziato sul nucleare dell’Iran (sponsor di Hamas).

 

Obama ha una vocazione non interventista, ma vuole anche passare alla storia siglando la pace con gli ayatollah, chiudendo la frattura aperta nel 1979. C’è questa ratio di fondo in quella che appare a tanti analisti anche di campo democratico una “non politica estera” e comunque una linea attendista e amletica. Dal vergognoso disimpegno del 2009 nei confronti dei ragazzi dell’Onda verde all’attendismo dagli esiti disastrosi sulla crisi siriana ai contenuti caotici della mediazione di John Kerry tra Abu Mazen e Bibi Netanyahu,  alla decisione di non contrastare lo Stato islamico in Iraq (la delega è così passata all’Iran) sino alla scelta di indebolire sulla crisi di Gaza il ruolo di Egitto e Arabia Saudita – capifila della “barriera sunnita antiraniana” –  il punto focale della strategia obamiana è stato uno solo.

 

Riassumibile in poche parole: rafforzare la posizione dialogante del presidente Rohani e dare garanzie e soddisfazioni alla posizione oltranzista rappresentata dal blocco pasdaran-clero militante che si vede premiato con la libertà d’azione in Siria, come a Gaza. Modello Chamberlain, si potrebbe dire. Questa strategia arrendista ha segnato il pessimo andamento dei colloqui di Ginevra sul nucleare: gli ayatollah hanno colto l’ansia di Obama di concludere a tutti i costi l’accordo e hanno concesso poco o nulla – così hanno ottenuto il rinvio a novembre dei colloqui e un’ulteriore sospensione delle sanzioni, vitale per l’economia iraniana.

 

Vista dal Cairo, da Riad (e da Gerusalemme) la strategia di appeasement di Obama verso l’Iran appare suicida. Anche perché tanti sono i missili iraniani puntati su Israele quanti sono quelli puntati sui sauditi che secondo gli ayatollah “usurpano la custodia dei luoghi santi dell’islam”. Le mosse di Abdel Fattah al Sisi (inclusi i contratti in armi per miliardi di dollari siglati appena andato al potere con la Russia) sono ispirate a questa valutazione. Gli stessi prodromi della sua decisione di detronizzare Mohammed Morsi vanno ricercati nella scelta di quest’ultimo di stringere “rapporti fraterni” con gli ayatollah iraniani. Il presidente egiziano applica una deprecabile strategia “algerina” di attacco frontale ai Fratelli musulmani e rischia così una guerra civile come quella che straziò quel paese. E’ indubbio che il suo Egitto è autoritario e illiberale. Ma è anche indubbio che oggi solo facendo perno su al Sisi l’occidente può impostare una azione di contrasto all’emergenza salafita, all’oltranzismo iraniano e qatariota, assi portanti delle forze eversive in Siria, a Gaza e in Libia.

 

Solo l’esercito egiziano può garantire la smilitarizzazione di Gaza, così come il controllo – tramite il “vassallo” libico, il generale Haftar – quantomeno della Cirenaica e dei suoi pozzi (vitali per l’Italia). Non è un caso che al Sisi faccia incollare da mesi su tutti i muri dell’Egitto manifesti in cui la sua immagine è a fianco di quella di Anwar al Sadat. E’ un’indicazione rivolta all’interno e al mondo, concretizzata oggi nello scenario di  un esercito egiziano che a Gaza fiancheggia l’esercito israeliano. Sadat chiuse la guerra con Israele e fu perno della dura risposta araba contro l’Iran di Khomeini. Al Sisi si propone oggi in continuità con l’azione del rais ucciso dai fondamentalisti salafiti idolatrati da Teheran. Né gli Stati Uniti né l’inesistente Europa raccolgono però  la sua offerta.
 

 

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