John Kerry (foto Ap)

Arrivano gli americani, embè?

Al Cairo l’emissario di Obama Kerry non ha poteri di mediazione.

New York. Barack Obama ha detto ieri che l’America continuerà a lavorare con Israele e gli altri partner della regione per arrivare a un cessate il fuoco immediato, reiterando in sostanza il ritornello diplomatico sull’operazione militare Protective Edge a Gaza: Israele ha il sacrosanto diritto di difendersi dai razzi e dai tunnel di Hamas, ma la rapidità con cui cresce il numero delle vittime è preoccupante (sono più di cinquecento le vittime palestinesi). Una tregua sostenibile, magari basata sulle condizioni raggiunte nel 2012 dopo i bombardamenti israeliani, è l’obiettivo immediato dell’America, e il presidente ha affidato la trattativa al solito John Kerry, indefesso segretario di stato che dall’inizio del suo mandato ha investito inimmaginabili dosi di energie e risorse per costruirsi un ambizioso profilo da mediatore del processo di pace e ora si ritrova a dover placare una guerra. Le ambizioni si sono inevitabilmente ristrette lungo il cammino. Quello che è arrivato ieri sera al Cairo è un Kerry rimpicciolito, ambasciatore della più grande potenza del mondo che si è progressivamente tirata fuori dal cuore delle controversie di un medio oriente rivoluzionato e in fase di riassestamento, e nel momento della crisi scopre di non avere più il ruolo principale che aveva sempre recitato.

 

Normale, in un contesto del genere, che anche il navigatissimo Kerry inciampi per eccesso di nervosismo in una gaffe da microfono acceso a sua insaputa, criticando apertamente l’entità dell’operazione di Tsahal e dicendo trafelato al suo vicecapo di gabinetto “dobbiamo andare là questa sera”. Il problema è che “là” Kerry trova un gruppo di attori che competono per diventare i titolari della mediazione della tregua, tagliando fuori Washington. L’Egitto di Abdel Fattah al Sisi aveva già offerto una tregua: la proposta è stata rifiutata dagli islamisti, ma l’America era stata tenuta all’oscuro, scavalcata come un competitor qualunque, come se nemmeno avesse staccato un assegno da 575 milioni di dollari per coprire almeno parzialmente i fondi destinati all’Egitto inevitabilmente congelati dopo il golpe. Ora alcuni funzionari del governo del Cairo dicono che ci sarà un’altra offerta per venire incontro alle richieste di Hamas.

 

"L’Egitto non esclude di aggiungere alcune delle condizioni richieste da Hamas, ammesso che le parti accettino”, hanno detto funzionari del Cairo all’agenzia Reuters. Il rapporto tra Washington e l’Egitto è ancora in una fase di sospetti reciproci: ci si conosce poco, i fondi americani a lungo congelati sono stati sbloccati soltanto di recente, e per questo l’America ha cercato di incoraggiare l’inziativa di due altri mediatori di pace sgraditi al Cairo, Turchia e Qatar. Per evitare il primato dell’Egitto nelle trattative, ha conferito legittimità a un paese il cui primo ministro, Recep Tayyip Erdogan, accusa Israele di commettere “un genocidio sistematico”, “barbarie che sorpassano quelle di Hitler” e altre bestialità che sembrano uscite da un’antologia di Ahmadinejad; il Qatar è invece la casa dei fratelli politici di Hamas, centro di gravità dell’internazionale dei Fratelli musulmani, nemici giurati di al Sisi. Allo scenario si aggiunge anche Hezbollah, che ieri attraverso una telefonata del suo leader, Hassan Nasrallah, ha offerto aiuto ad Hamas contro il comune nemico israeliano.

 

Il premier d’Israele, Benjamin Netanyahu, dice che la fine delle ostilità dipende da Hamas (“se loro continuano a combattere continueremo anche noi”) ma  per raggiungere l’obiettivo strategico principale, sigillare i tunnel della Striscia, servono ancora alcune incursioni dentro Gaza, e l’esercito si sta attrezzando in vista di un conflitto più lungo. Obama chiede a Kerry di negoziare un cessate il fuoco “immediato”, ma il segretario non ha fra le mani le leve diplomatiche per imporre una tregua. Un reportage di Ben Birnbaum e Amir Tibon apparso sul magazine New Republic, racconta passo dopo passo il fallimento delle trattative di Kerry per avviare il processo di pace, che è finito come tutti gli altri tentativi, male, e certo non solo per colpa di Kerry; la differenza rispetto al passato è che mentre il segretario era affaccendato attorno all’obiettivo epocale della pace, tutto lo scenario attorno è cambiato, gli attori si sono riciclati, tutto l’assetto della regione è stato ridisegnato. E l’America di Obama e Kerry si è ritrovata improvvisamente a bordo campo, spogliata anche della prerogativa di negoziatore di una tregua militare.