A Tripoli l'Italia deve giocare sporco

Carlo Panella

Se il governo italiano non “gioca sporco” la Libia diventerà una caotica Somalia a soli pochi chilometri dalla Sicilia. Il quadro è gravissimo. I Fratelli musulmani sono all’offensiva contemporaneamente a Gaza con Hamas e a Tripoli con le milizie di Misurata, mentre Bengasi è conquistata da Ansar al Sharia che proclama l’Emirato islamico.

Se il governo italiano non “gioca sporco” la Libia diventerà una caotica Somalia a soli pochi chilometri dalla Sicilia. Il quadro è gravissimo. I Fratelli musulmani sono all’offensiva contemporaneamente a Gaza con Hamas e a Tripoli con le milizie di Misurata, mentre Bengasi è conquistata da Ansar al Sharia che proclama l’Emirato islamico. E’ ingenuo pensare che siano coincidenze. Soprattutto se si guarda a questo scenario con gli occhi del Cairo. Oggi, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi è costretto a registrare al suo confine orientale la piena riuscita propagandistica dei Fratelli musulmani di Hamas che impongono alla umma araba la propria leadership nel “tenere alta la bandiera palestinese”, mentre al suo confine occidentale Ansar al Sharia annuncia la conquista di Bengasi, rendendo porosa alle infiltrazioni di jihadisti e Fratelli musulmani la frontiera con la Libia. A Tripoli i Fratelli musulmani libici con le milizie di Misurata infliggono duri colpi alle milizie “laiche”. Il tutto anche perché Mustafa Abdel Jalil, ex presidente del Consiglio nazionale di transizione, ha convinto forse in malafede molte tribù alleate con i “laici” ad accettare un cessate il fuoco che però è stato unilaterale e non rispettato dagli islamisti. Jalil era il fiduciario del terzetto Sarkozy-Cameron-Obama, che nel 2011 iniziò l’operazione militare in Libia con intenti umanitari e con approvazione sia della Nato sia dell’Onu. Perfino la Russia di Vladimir Putin accettò i bombardamenti, facendosi promettere che l’America e gli alleati non avrebbero forzato un regime change. L’operazione umanitaria si trasformò invece in una caccia all’uomo contro il Gheddafi, e l’occidente perse in maniera definitiva la fiducia dei russi.

 

Il quadro libico è talmente pericoloso – se visto dal Cairo – che l’aviazione egiziana è stata posta “al più alto grado d’allarme” per timore che gli aerei civili caduti in mano ai jihadisti di Tripoli possano essere usati per mettere in atto contro il Cairo un’operazione terroristica in grande stile.  Dunque, registriamo la pessima notizia che la regia dei Fratelli musulmani – che sono una “internazionale” centralizzata – sta ottenendo eccellenti risultati. A Gaza sul piano dell’immagine, a Tripoli ribaltanto una tragica sconfitta elettorale (sono crollati al 15 per cento) in una offensiva militare vittoriosa. Per non dire di Bengasi.

 

Nel caos libico, l’Italia è l’unico paese a mantenere aperta la sua ambasciata di Tripoli. Una scelta meritoria: dopo i disastri combinati da francesi e inglesi durante e dopo la guerra, siamo l’unico paese che è in contatto con leader libici influenti per tentare qualche manovra di ricomposizione politica. Roma punta tutto sulla formazione di un nuovo governo libico di unità nazionale nella prima seduta del nuovo Parlamento, fissata per il 4 agosto. Questo è il programma enunciato dal ministro degli Esteri, Federica Mogherini, e quanto ha dichiarato al Parlamento il sottosegretario ai servizi, Marco Minniti, che è all’apice politico di un complesso – e antico – network libico.

 

Una rete coperta dal massimo riserbo, che ha – tra gli altri – due sicuri riferimenti nell’ex capo dei servizi segreti di Gheddafi, Mussa Koussa, grande amico dell’Italia con appartamento lussuoso a Roma, e Abdelsalam Jallud, già numero due di Gheddafi, emarginato nel 1993, passato coi ribelli nell’agosto 2011 (con pubblico applauso di Franco Frattini), in grado di esercitare efficaci mediazioni. E’ infatti il leader politico della grande tribù dei Maghariba che, alleata con le tribù dei Warfalla e dei Zintan esercita uno storico ruolo di baricentro nel gioco delle alleanze tribali libiche.

 

Il disastro è però che questa saggia road map italiana appare ogni giorno più impraticabile. Ne è drammatica prova lo spostamento della prima riunione del nuovo Parlamento a Tobruk, perché Tripoli non è sicura. Ovviamente, se la road map politica fallirà, come è quasi certo, l’Italia tenterà di rivolgersi alla Nato e all’Onu. Scelta ineccepibile che avrà però solo il risultato di dare il caotico sigillo a una “Somalia a pochi chilometri dalla Sicilia” (eccellente immagine del viceministro degli Esteri Lapo Pistelli). Né Onu né Nato possono o sanno intervenire militarmente o politicamente per arginare questo disastro libico. Dunque, per evitare il caos c’è solo una soluzione: che l’Italia giochi sporco. Che il governo di Matteo Renzi costituisca un solido ma discreto asse operativo con Fattah al Sisi e favorisca in tutti i modi – anche quelli inconfessabili – una egemonia militare e politica egiziana sulla Cirenaica. Se la si consegue, oltre a salvare i fondamentali terminali Eni di Mellitah e il gasdotto Green Stream, l’Italia potrà tentare di imporre da una posizione di forza, assieme all’alleato egiziano, una ormai improbabile ricomposizione della Libia, oppure una sua scomposizione federale (che Parigi e Londra tentarono nel primo Dopoguerra) tra Cirenaica, Fezzan e Tripolitania, in un quadro concordato.

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