Cristina Kirchner (foto Ap)

Vogliono prenderci Vaca Muerta! L'urlo dell'Argentina in default

Angela Nocioni

L’ultima paranoia peronista sull’impero crudele gringo pronto a mangiarsi le ricchezze dell’ingenuo sud è costruita a tavolino sopra un articolo di Bernard Weinstein che sostiene che in caso di mancati pagamenti gli americani possono rivalersi su Vaca Muerta. La reazione dei mercati.

"Vogliono Vaca Muerta!”. E’ questo il nuovo tormentone politico dell’inverno australe di Buenos Aires, soffocata dalla propaganda e dal default. “Van por nuestra Vaca Muerta!”, l’urlo di Jorge Capitanich, capo di gabinetto del governo argentino e grande amico della presidente Cristina Kirchner, emesso via Twitter dieci giorni fa, è diventato ormai la strategia di comunicazione della Casa Rosada per salvare la faccia di fronte ai cittadini stremati. Dalla mezzanotte di mercoledì in Argentina, tecnicamente entrata a quell’ora in default, la consegna nazionalista è: ci vogliono prendere Vaca Muerta, ossia il tesoro di idrocarburi scoperto di recente in provincia di Neuquén, nel profondo sud patagonico, giacimento di 30 mila chilometri quadrati che, secondo il dipartimento di Energia americano, ha le quarte riserve al mondo di shale oil e le seconde di shale gas (petrolio e gas difficili e costosi da estrarre, ma molto redditizi nel lungo periodo).

 

Vaca muerta è stato il regalo più grande che la sorte ha fatto a Cristina da quando è al governo. Valutata, ma al ribasso perché gran parte del giacimento è inesplorato, la grande ricchezza sepolta sotto le rocce di Neuquén, la presidente si è precipitata a nazionalizzarla. Nel 2012, con un progetto di legge approvato con entusiasmo dalle Camere, ha deciso di “recuperare la sovranità nel settore degli idrocarburi”. Ha espropriato alla spagnola Repsol, indennizzandola poi non male, il 51 per cento delle azioni di Ypf (Yacimientos petrolíferos fiscales), che la multinazionale aveva in mano da vent’anni. Vaca muerta è ora gestita dalla Ypf nella sua nuova veste di società mista, con capitali cinesi, brasiliani (Petrobras), venezuelani (Pdvsa), boliviani (Petrobol). Il 16 per cento ce l’ha la Chevron.

 

L’ultima paranoia peronista sull’impero crudele gringo pronto a mangiarsi in un sol boccone le ricchezze dell’ingenuo sud è costruita a tavolino sopra un articolo di Bernard Weinstein, economista del George W. Bush Institute, pubblicato di recente dallo Investor Business Daily. Il pezzo spiega che, in caso di default, potrebbero cadere gli accordi con le compagnie di idrocarburi firmati finora. Per esempio quello con la Chevron, impegnatasi a investire un miliardo e seicentomila dollari entro il 2014 e altri 15 miliardi nel prossimo futuro. “Gli investitori stranieri potrebbero chiedere condizioni più favorevoli per partecipare”, ha scritto Weinstein. Da lì, ai manifesti peronisti con truci avvoltoi vestiti a stelle e strisce che avvisano dai muri del centro di Buenos Aires: “El enemigo volviò”, il nemico è tornato, il passo è stato brevissimo.

 

Nella versione per le masse della spiegazione del default, con fondi speculativi rapaci, tribunali consenzienti e il solito rosario di piagnistei nazionalistici, la Kirchner è aiutata dagli amici al governo in altri paesi dell’America latina. Dal Venezuela di Maduro, figuriamoci, l’appoggio è totale. Ma anche dal Brasile perfettino di Dilma Rousseff, mai stata una fan di Cristina, arriva un salvagente prezioso. Il ministro brasiliano dell’Industria, Guido Mantega, ripetendo il mantra peronista dell’ultima settimana, ha detto ieri: “Non credo si possa dire che l’Argentina è in default. Si tratta soltanto di una sospensione dei pagamenti, perché l’Argentina in realtà sta pagando i suoi debiti. Ha depositato il denaro necessario a pagare i suoi creditori, ha dato quel che doveva al club de Paris (gruppo di 19 paesi ricchi, ndr) però si trova in una situazione eccezionale, perché chi le impedisce di continuare a onorare i suoi debiti è un giudice statunitense”.

 

Il colpevole da schiaffare sui prossimi manifesti peronisti è quindi l’ottantaquattrenne giudice newyorchese Thomas Griesa, l’incubo di Cristina da quando, un mese fa, ha dato ragione ai fondi speculativi statunitensi a lui ricorsi per esigere il pagamento per intero del valore nominale in dollari dei bonus in loro possesso, circa l’1 per cento del totale dei creditori.

 

Non sono bastate le frenetiche riunioni delle ultime settimane, la guerra delle inserzioni a pagamento nei giornali argentini e statunitensi, né il lavoro di mediazione di Daniel Pollack, imposto dal giudice Griesa per far da ponte tra le parti. Nemmeno la proposta dell’ultimo minuto avanzata mercoledì da un gruppo di banche private argentine, su iniziativa politica dell’ex ministro dell’Economia di Buenos Aires, Roberto Lavagna, è servita a evitare il default. Il compromesso offriva un deposito di garanzia per il valore di 250 milioni di dollari. Si trattava cioè di far comprare a un gruppo di banche private argentine quote del debito per quella cifra. Loro si offrivano di comprare i bonus in pesos e di darli poi, con un valore nominale in dollari, ai fondi. Il deposito equivaleva al 20 per cento della cifra che l’Argentina deve pagare.

 

C’è ancora tempo per i ripensamenti, in realtà. La misura sarebbe salvifica per l’Argentina perché, se accettata, eviterebbe l’attivazione della clausola Rufo, la clausola che consente a tutti gli altri creditori con cui è stato già trovato un accordo, di chiedere lo stesso trattamento di favore riservato agli hegde fund ricorsi a Griesa. Cosa che, se avvenisse, costerebbe a Buenos Aires 12 miliardi di dollari, cifra proibitiva perché corrisponde alla abbondante metà delle sue riserve internazionali.

 

L’Argentina ha scelto tra lo svuotamento delle casse statali e l’isolamento internazionale. Ha preferito l’isolamento, come il peronismo ortodosso comanda e come il pragmatismo politico consiglia. Il ragionamento di chi suggeriva a Cristina di non pagare, o perlomeno di non scucire nemmeno un dollaro prima del gennaio del 2015, è il seguente: se non paghiamo, cosa succederà mai? L’inflazione al 50 per cento già ce l’abbiamo, la recessione pure, non riceviamo grandi investimenti che non siano quelli speculativi cinesi. Cos’altro può succederci? Non ci concederanno più prestiti gli organismi internazionali? Ma tanto già non ci danno nemmeno un centesimo. Dalla padella alla brace, alla fine, il salto non è poi così drammatico.