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London calling

Non solo Fiat. Tutti pazzi per il fisco e l'affidabilità british. Ecco perché

Ugo Bertone

Verso l’ultima assemblea italiana per Marchionne. Mediobanca e Gtech migrano, come fanno gli americani

Milano. Fiat house. Bath road 240. Slough, Berkshire. Sarà questo, entro il week-end, il nuovo indirizzo fiscale di Fca, ovvero Fiat Chrysler Automobiles (Fca), frutto della fusione transfrontaliera tra la “vecchia” Fiat italiana e la Fiat Investments n.v., sede legale ad Amsterdam, domicilio fiscale nella cittadina britannica, poco più di 100 mila abitanti, che agli occhi dell’ad errante Sergio Marchionne presenta un vantaggio ineguagliabile: solo 8 chilometri dall’aeroporto di Heathrow.

 

La scelta non è destinata a restare isolata. Tra qualche mese, ultimata la fusione con la “preda” Usa, Igt, leader delle slot machine di Las Vegas, la Gtech controllata dal gruppo De Agostini adotterà uno schema assai simile a quello studiato dalla società nata dalle nozze Torino-Detroit: quotazione alla Borsa di New York, sede fiscale a Londra. All’ombra della City, Marchionne, “obbligato” dalla legge inglese a risiedere metà dell’anno sulle rive del Tamigi per giustificare il domicilio fiscale, sarà inoltre in buona compagnia: Alberto Nagel, ad di Mediobanca, pur restando fiscalmente domiciliato a Milano (come tiene a precisare) da settembre trasferirà sia la famiglia sia buona parte del business di Piazzetta Cuccia dalle parti della City dove la banca ha già reclutato una squadra di banchieri vip, capitanati da Stefano Marsaglia ex Rothschild e Francesco Canzonieri in arrivo da Barclays, e dove opera il team degli analisti guidati da Angelo Guglielmi.

 

Insomma, il fascino di Londra cresce, l’ombra della piazza finanziaria di Milano impallidisce. Ma non è un look solo italiano. Il fenomeno sta contagiando un numero crescente di società americane. Almeno venti, nel corso dell’ultimo anno, hanno preso il passaporto britannico, attratti soprattutto dalla politica fiscale inglese: la corporate tax di Londra sta scendendo rapidamente verso il 20 per cento dal 28 del 2010 (oggi siamo al 22 per cento) ma è previsto un ulteriore sgravio, al 10 per cento, per le società che registrano i loro brevetti nel Regno Unito. Niente di paragonabile alle aliquote del fisco Usa (il 39 per cento) per non parlare dei primati della fiscalità di casa nostra. Ce n’è abbastanza per giustificare il grido di dolore di Barack Obama: “Non mi interessa se tutto questo è legale – ha detto – comunque è sbagliato”. E così l’Amministrazione democratica si mobilita per introdurre ostacoli sulla strada di Londra.

 

Oggi, per conquistare il passaporto britannico, una società Usa può comprare un’azienda inglese e trasferire nel Regno Unito il 20 per cento delle sue attività. Le nuove disposizioni studiate da Jack Lew, sottosegretario al Commercio, alzeranno la percentuale al 50 per cento. Basterà? In realtà, spiega il Wall Street Journal, l’unica speranza del fisco Usa risiede nelle elezioni: un successo laburista l’anno prossimo potrebbe far finire la concorrenza del fisco inglese. “E pensare – ironizza il quotidiano finanziario – che l’America ha scatenato la gerra di Indipendenza per liberarsi delle tasse inglesi…”. A favorire la corsa a Londra, comunque più cara dei “paradisi fiscali” dentro e fuori l’Europa, contribuiscono altri fattori: efficienza dei servizi, certezza del diritto, buone regole di governance. Certo, come sottolinea il Lingotto, la “Fiat non sta lasciando l’Italia. Le attività italiane (per cui Fca pagherà comunque le tasse, ndr) e un impegno generale del gruppo resteranno immutati”. L’Italia, al 138° posto nella classifica di Doing business, ha ben poco da contrapporre a Slough, sonnacchiosa ma efficiente periferia della grande Londra.

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