I manager, l'altro capitale estero che manca alle aziende italiane

Antonio Belloni

Non solo i soldi. Quegli esempi di rigore e merito che gli stranieri iniettano nel made in Italy. Parlano gli esperti.

Tanti mettono sul tavolo solo il cosiddetto “chip”. Alcuni qualche fiche in più. Altri passano il Rubicone diventando soci di maggioranza e aggiudicandosi la guida dell’intera azienda. Volesse diventare un po’ più adulto, il nostro capitalismo potrebbe decidere di guardare oltre gli elenchi di aziende acquisite e di assegni in arrivo dall’estero, per capire cosa fanno e come operano in concreto gli stranieri che battono il suolo italiano. Quando si tratta di decidere come guidare un’azienda made in Italy a trazione estera si metta subito da parte la paura per rottamazioni dirompenti o licenziamenti rasoterra in stile Hiroshima e Nagasaki. Superato il Piave della proprietà, lo straniero si guarda bene dall’entrare a gamba tesa, spolpare e asciugare l’azienda, e affronta, la più parte delle volte con metodo, due aspetti chiave: gli asset materiali e quelli immateriali.

 

Prodotto e brand, quando strettamente connessi al valore del made in Italy, vengono maneggiati con cura, talvolta persino con l’orgoglio di chi sente di aver conquistato la donna più corteggiata del quartiere, e utilizzati per la penetrazione di nuovi mercati. Anche quando l’acquisizione ha il fine più limitato di conquistare solo il mercato italiano è molto difficile che questi due elementi subiscano alterazioni o vengano depauperati. La proprietà arriva con i soldi freschi, e questo le dà il diritto di impugnare il secondo degli aspetti chiave, il management. E anche qui non si vedono grandi rivoluzioni all’orizzonte perché la maggior parte delle volte la parola d’ordine è integrazione, o al limite correzione. Certo, le prime e le seconde linee molto spesso saltano, dall’amministratore delegato al capo del personale, ma questo accade anche quando l’azienda passa da un proprietario all’altro senza cambiare passaporto. Susanna Stefani, vicepresidente di Governance Consulting, suggerisce che “spesso tra le prime richieste vi è quella di commissionare all’esterno un’analisi su come lavora il cda, la cosiddetta Board review. Oppure un management assessment”, attraverso il quale la nuova proprietà che viene dall’estero in qualche modo comprende se il valore del management sia altrettanto rispondente a quello di prodotto e brand. Convinta che “le iniezioni nuove dall’esterno portino sempre un sano dinamismo, anche nella vita e non solo nell’azienda”, Stefani conferma che “spesso le aziende estere trovano ottimo personale, e lo stile di conduzione italiano, benché molto individuale, ha anche molti elementi positivi”.

 

Alle prese con la legislazione italiana


Nonostante alla guida sia lasciata una qualche autonomia, a cambiare davvero sono quasi sempre i chief financial officer (Cfo), vere figure di controllo con cui si tengono d’occhio cassa, gestione finanziaria e bilancio figli della ventata d’aria nuova straniera. L’integrazione delle figure di comando e la relativa correzione di rotta strategica che viene comunicata “a scendere”, avvengono di solito senza grandissime difficoltà. La penetrazione nel mercato italiano, anche in termini di corporate governance, è invece più difficile quando si tratta di comprendere ordinamenti vari, normative e burocrazia, quelli che non risparmiando autolesionismo definiamo “lacci e lacciuoli”. Secondo Gabriele Pizzetti, senior manager della divisione made in Italy di Michael Page, “gli stranieri impazziscono quando devono comprendere la legislazione italiana, i contratti collettivi di lavoro, e i rapporti con i sindacati”. Che l’aspetto legislativo sia uno degli ostacoli principali, anche ad alto livello, si comprende osservando che spesso i nuovi soci o la nuova proprietà estera inseriscono dei legali esperti – italiani – nel consigli di amministrazione, magari gli stessi che hanno visto nascere l’acquisizione e l’hanno portata a termine. Fluidificare questi percorsi non è certo un compito delle imprese, quanto più del governo, benché ogni ordinamento nazionale porti con sé le proprie specificità.

 

A ogni passaporto dell’investitore corrisponde poi un modello di gestione aziendale specifico? Non è facile dirlo. Chissà se i qatarioti che hanno acquisito Valentino, i francesi di Lactalis che hanno messo le mani su Parmalat, i siriano-canadesi di Madar, o gli americani di BlackRock che imperversano tra banche e assicurazioni hanno modalità di gestione differenti. E’ più semplice osservare che, di fronte a un comune modello anglosassone internazionale, a essere del tutto unico e discutibile è invece il modello familiare italiano, quello che mette mezzo parentado in Consiglio d’amministrazione, la cognata a capo del marketing e il cugino a fare il capo della finanza, semmai questa figura fosse prevista, manco avesse doti del megadirettore di fantozziana memoria. Ed è proprio qui l’altro indiscusso vantaggio che fa dire agli economisti italiani più coraggiosi “invadeteci tutti”. L’arrivo degli investitori esteri dovrebbe fare felici i manager più capaci se, come sostiene Roger Abravanel, presidente dell’M&A Award, già McKinsey, che monitora acquisizioni e fusioni, italiane ed estere, “gli stranieri valorizzano il management perché premiano il merito” e quindi interrompono quelle catene familistiche con cui, anche in azienda, prevale e comanda l’amico o il parente. Gli stranieri iniettano poi vaste dosi di rigore e disciplina anche in termini di governance, controllo di gestione e internal auditing, e per Simone Dragone di Eidos Partners, che ha assistito a diverse operazioni cross border, “sono più standardizzati e anche se un po’ uccidono la creatività tipica italiana, portano armi preziose per combattere in un mercato globale sempre più difficile”. D’altronde la creatività, oltre alla “forza” del noto spot, è nulla senza controllo. I numeri di bilancio, oltre ai successi della Nazionale tedesca, sono lì a dimostrarlo.

 

(Antonio Belloni è autore di “Esportare l’Italia, virtù o necessità?” di Guerini e Associati Editori)

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