Il sistema missilistico Buk che avrebbe abbattuto l’aereo malese

Dicesi guerra

Anna Zafesova

La tragedia del Mh17 costringe il mondo a chiamare le cose con il loro nome.

Milano. Tifosi del Newcastle, funzionari dell’Organizzazione mondiale della sanità, una parente del premier malese, un pioniere della ricerca sull’Aids, studenti, turisti, bambini di una decina di nazioni: 298 passeggeri del Boeing malese hanno pagato con la vita l’essersi trovati a 10 mila metri di altitudine sopra una guerra che nessuno vuole chiamare con il suo nome. Se fosse stata ufficialmente definita guerra gli aerei civili non avrebbero sorvolato un territorio dove i miliziani sparano a tutto quello che vedono sopra la loro testa, e hanno anche mezzi di cui nessuna guerriglia aveva mai disposto, in dotazione solo a eserciti regolari. Barack Obama dice di avere prove che la sciagura “di dimensioni indicibili” è stata provocata da un missile terra-aria dalla zona controllata dai separatisti, e che non avrebbero potuto farlo senza “addestramento e armi complesse, che vengono dalla Russia”. Kiev, basandosi anche sulle intercettazioni nelle quali i ribelli riferiscono a Mosca di aver abbattuto l’aereo, accusa i “terroristi” e dice di aver arrestato due puntatori russi e di conoscere i nomi dei tre ufficiali russi che hanno schiacciato il bottone. Sergei Lavrov respinge le accuse con la semplice motivazione che “da Kiev non si sono mai sentite affermazioni veritiere”. Insomma, gli ucraini sono tutti bugiardi, e comunque la colpa è loro, come dice Putin, perché “se non avessero ripreso i combattimenti non sarebbe accaduto”.

 

La tragedia del Boeing è un’emergenza inedita, che rischia di segnare un punto di non ritorno. Angela Merkel dice che “in quello che è accaduto la responsabilità principale è della Russia”. Il New York Times scrive nel suo editoriale che solo Putin può fermare la crisi. Ammesso che sia vero, resta la domanda su come persuaderlo. Finora ad arginare le ambizioni russe dopo l’annessione della Crimea non sono state tanto le sanzioni e le mediazioni, quanto il sostanziale fallimento sul terreno. E mentre i separatisti si dotavano prima di kalashnikov ultimo modello, poi di blindati, e infine di missili anti aerei a lunga gittata, nessuno parlava di guerra. Gli ucraini usavano l’eufemismo di “operazione anti terroristica”, Putin di “operazione punitiva contro il popolo” (anche perché ad ammettere che era una guerra avrebbe dovuto anche riconoscere di esserne una delle parti), la diplomazia occidentale “crisi” e “conflitto”. Gli esperti si sbizzarrivano in definizioni come “guerra ibrida”, “nuova” e “asimmetrica”, mentre diventava sempre di più una guerra vera, vecchia, propria di una potenza che tiene un “comportamento da XIX secolo”, come disse all’inizio del conflitto John Kerry.

 

Molti sperano che dopo lo choc dell’aereo malese sia possibile solo una marcia indietro, e Obama chiede la fine immediata delle ostilità. Putin per ora cautamente dà all’Ucraina la colpa “morale”. Ma poi tutto affoga di nuovo nelle polemiche propagandistiche. I separatisti negano di possedere i missili Buk, nonostante si fossero vantati prima di averli sottratti in una base ucraina, e “rimessi a posto”. I media russi sono pieni di “testimoni” di come un caccia ucraino avrebbe colpito il Boeing (i Sukhoi non volano sopra i 5 mila metri), di esperti che danno la colpa ai militari di Kiev che hanno sbagliato a tirare un missile perché incapaci (a chi avrebbero dovuto sparare a quella altitudine resta un mistero) e di teorie del complotto come quella del comandante russo dei ribelli Igor Girkin-Strelkov, secondo cui la maggior parte dei passeggeri “era già morta da giorni”. In altre parole, gli occidentali hanno riempito un 777 di cadaveri per poi accusare i ribelli (sacrificando nella missione l’equipaggio malese). L’ambasciatore russo all’Onu, Vitaly Churkin, sospetta che i controllori di volo ucraini abbiano inviato apposta l’aereo sotto il tiro dell’antiaerea (che poteva però essere o russa o dei ribelli, visto che solo gli ucraini usano l’aviazione). Obama parla di “un monito per svegliare l’Europa”, e forse se ne rende conto anche Angela Merkel, come sembra dalla sua richiesta a François Hollande di non vendere le navi militari Mistral ai russi. A differenza di quella americana, la diplomazia europea fatica ad ammettere di poter avere non solo interlocutori, ma anche nemici, e di doverli trattare di conseguenza. I russi questa capacità non l’hanno mai archiviata. La pace è un valore supremo, ma è faticosa da raggiungere con una controparte che continua a negare l’evidenza. Una guerra ha delle regole. Ignorarle, fingendo che la guerra non ci sia, difficilmente produce la pace.

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