Leo Messi e Diego Armando Maradona (foto Ap)

Qui si spiega perché Maradona è spiegabile e Messi, in fondo, no

Alessandro Schwed

Potremmo dire che la Pulce e la sua opera attengono alla magia di un antico mago. Oppure, a una sconosciuta civiltà di calcianti. El Pibe de oro no, lui si vedeva cosa stesse facendo, era un calciatore alla decima potenza.

Lo vediamo correre, Messi. Calciare la palla, avere davanti un avversario e già averlo alle spalle come un fatto a stento accaduto. In campo, alla premiazione sugli spalti, nel sottopassaggio degli spogliatoi, stringe la mano ad arbitri, esterni, ministri, notabili Fifa, miss, regine, fotografi. E sono oltrepassati. Saluta chi ha davanti. Tutti. Rapido, asettico. Non per educazione, per automazione. Si accommiata che sta incontrandosi. Lo sguardo oltrepassa chi incontra: può darsi che pensi o che stia contando il numero di gradini che ha salito e poi scenderà. Un lampeggiare di aprire e di chiudere proviene dalla bocca. E’ la sua chiostra dentale. Sorride. Non che sorrida e si soffermi in un brillar d’occhi: è la traduzione della nozione di sorriso. Fatto. Ora proseguo. Vado altrove e ciò che doveva essere, è stato. Io ho sorriso. Mi hanno visto in Cina. Un gesto meticoloso, rapido, forse doloroso. Il dolore che costa è cancellato dall’anestesia di quando può calciare. Sorride come se si spalancasse una saracinesca senza il negozio alle spalle. Quando il sorriso è concluso, e ciò accade immediatamente, la saracinesca ripiomba in basso, ed è come se niente sia accaduto. Messi è già due passi altrove da dove ha sorriso. Sulla sua scia, una voce cordiale quasi esistente si accomiata: signore e signori, grazie. La vostra escursione sul Sorriso di Messi si è conclusa. Leo è a tre passi, vale a dire a trenta milioni di chilometri. Irraggiungibile. In viaggio verso un’equazione. Ma qualcosa di prima continua ad accadere: un rimbombo oltrepassa le nuvole, in arrivo dalle profondità dello spazio, come se enormi chiavi avessero provveduto a richiudere il ferro titanico del suo volto e il mondo riecheggiasse ancora del nome, Messi, essi, essi… Chi è mai il signore di Messi, e cos’è Messi, è forse una nazione?

 

Poi Messi gioca a calcio. In una realtà sincronizzata con la nostra, parallela e allo stesso tempo asimmetrica, stanziata in un altrove il cui indirizzo non è mai pervenuto. Scarta un mediano, poi due terzini e questo si compie in una sorta di scivolamento progressivo, un movimento fluido sull’erba, un trascorrere sdrucciolante e indecifrabile alla fine del quale l’avversario è alle sue spalle. A quel punto, vorremmo capire come ciò sia potuto avvenire, se si sia trattato davvero di un movimento o dell’utilizzazione di una curvatura spazio-temporale, ma è troppo tardi: Messi è qualche metro dopo. Così potremmo dire che Messi e la sua opera attengono alla magia di un antico mago. Oppure, a una sconosciuta civiltà di calcianti.  

 

Maradona no, lui si vedeva cosa stesse facendo, era un calciatore alla decima potenza. Quando superava un avversario, lo beveva correndo. Era un circense, un giocoliere, un fromboliere, un titano basso, un clown irascibile, un uomo che piange.
Maradona spiegabile, Messi inspiegato.
Alessandro Schwed