Dopo una vita a un passo dalla gloria Löw può cambiare la sua storia

Pierluigi Pardo

Non ha il fisico del rivoluzionario, d’accordo. Del santone alla Van Gaal o alla Bielsa. Sembra semmai uno stilista di moda, oppure un architetto avanguardista. Dettagli, comunque. Forma. La sostanza dice altro. E parla a favore di Herr Joachim Löw, l’uomo che ha fatto a pezzi il Brasile. Con innovazione, idee e coraggio.

Non ha il fisico del rivoluzionario, d’accordo. Del santone alla Van Gaal o alla Bielsa. Sembra semmai uno stilista di moda, oppure un architetto avanguardista. Dettagli, comunque. Forma. La sostanza dice altro. E parla, oggi più che mai, a favore di Herr Joachim Löw, l’uomo che ha fatto a pezzi il Brasile. Con innovazione, idee e coraggio.

 

Quasi l’opposto di Felipao Scolari. Il sosia di Gene Hackman pochi istanti prima del kickoff a Belo Horizonte viene beccato dalla telecamera, infreddolito mentre indossa a fatica la tuta, come un uomo di mezza età al parco. Qualche metro più in lá, trendy, con la camicia scura e il fisico asciutto, c’é Joachim che, ancora forse non lo sa, ma a 54 anni ben portati, sta per vivere uno dei pomeriggi più belli della sua vita. Adesso, dopo questo 7-1 esagerato, vede davanti il traguardo, possibile, il successo finale dopo anni di lavoro brillante e sfortunato, visionario ma non ancora vincente. Il Mondiale brasiliano può sparigliare tutto, cambiare verso alla recente storia del calcio tedesco e soprattutto a lui e al suo misero palmarés.

 

D’accordo, qualcosa Löw ha già vinto nella quasi ventennale carriera da allenatore. Qualcosa, appunto. Una coppa di Germania con lo Stoccarda nel 1997, uno scudetto austriaco col Tirol e una supercoppa con l’Austria Vienna. Robetta. Con la Deutsche Mannschaft invece fin qui è stato sempre brillante, l’uomo del podio sicuro, del quasi gol, perennemente a un passo dalla gloria. Sconfitto in finale al Prater di Vienna dalla Spagna del miglior Torres di sempre, nell’Europeo 2008. Trafitto ancora dalla roja, dalla capocciata riccia di Puyol a Durban nel 2010 dopo aver giocato un gran fussball però, quindi ferito al cuore da Balotelli a Varsavia, due anni fa. A ben vedere da ct ha avuto una sola vera inconfutabile colpa, essersi imbattuto nella Spagna dei record, come una maledizione insopprimibile. Forse l’idea di essere destinato a una vita da eterno secondo avrà pure sfiorato la sua mente nei momenti di sconforto, soprattutto dopo la notte di Varsavia, certamente però non ne ha affievolito la convinzione. Troppo forte del resto la sua idea, nata nel 2006 quando era assistente di Jürgen Klinsmann e troppo talentuosa questa generazione per non credere che tutto fosse ancora possibile.

 

Lui e Jürgen si erano conosciuti qualche anno prima del Mondiale tedesco alla scuola allenatori. Feeling istantaneo, empatia a pelle, soprattutto una visione comune del Gioco, distante dal calcio muscolare e piatto, regolare e a volte noioso della storia tedesca. La squadra che si affacciò da outsider nel 2006 e fece un’ottima figura prima di maledire i gol di Grosso e Del Piero aveva cambiato per sempre pelle. Calcio veloce e offensivo. Mentalità tedesca doc (non mollare mai) arricchita però da talenti esotici, Özil su tutti, per trovare ciò di cui c’era bisogno. L’ossessione di Löw è stata da subito il ritmo, la velocità di trasferimento del pallone e il movimento senza palla nel gioco offensivo.

 

Thomas Müller, il più duttile degli attaccanti tedeschi non a caso è il suo uomo simbolo. A Belo Horizonte ha aperto la strada con il decimo gol in dodici partite mondiali. Adesso sta per vivere la sua prima finale. E’ in piedi sul battello che collega la terraferma con il resort di Porto Seguro dove la Germania si allena. Accanto a lui Joachim Löw sorride. Forse pensa alle coincidenze del caso. Il 13 luglio 2006 diventò ct della Nazionale tedesca. Otto anni esatti dopo, sarà lì, nello stadio dei sogni di ogni bambino a giocare la partita più importante della sua vita. Unglaublich.

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