L'attaccante della nazionale tedesca Miro Klose (Foto Ap)

Leggere Hegel per capire che la Germania può farcela

Pierluigi Pardo

Gary Lineker dopo il complicato, adrenalinico 2-1 contro l’Algeria negli ottavi, non ha resistito e ha twittato, citando se stesso. “Il calcio è un gioco undici contro undici nel quale alla fine vincono i tedeschi”.

Gary Lineker dopo il complicato, adrenalinico 2-1 contro l’Algeria negli ottavi, non ha resistito e ha twittato, citando se stesso. “Il calcio è un gioco undici contro undici nel quale alla fine vincono i tedeschi”. Un evergreen che potrebbe tornare di moda nei prossimi cinque giorni.

 

Il colpo, del resto, è stato pensato nei minimi dettagli. Joachim Löw sa che questa volta è tutto diverso. Non c’entrano economia, Merkel, egemonia e Bundesbank. Al massimo Hegel. Tesi, Antitesi e Sintesi. Anche nel fussball, forse soprattutto qui.

 

La Tesi da sempre è la stessa. La National Mannschaft è fatta di cristoni alti due metri. Quando ero bambino li chiamavano Panzer. A San Nicola Arcella, in Calabria, in vacanza, dopo quel 3-1 del luglio ’82 caroselli in piazza, processioni con bara e necrologi ai muri. Si è tragicamente spenta la Germania. Noir enough.

 

Battere quella squadra non era mai stato facile, del resto. Polpacci smisurati, caviglie immense, patate, crauti e birre weiss. L’epoca di Hrubesch e Briegel, Rummenigge e Beckenbauer, Klinsmann e Andy Brehme. Uno stereotipo preciso, gente tosta, forte fisicamente e preparata anche mentalmente. L’organizzazione prima di tutto. Che a volte basta per vincere e altre, invece, fa tilt. I tedeschi lo sanno e da sempre sono attratti anche dal proprio opposto. E non solo perché le loro donne frequentano il Mediterraneo e qualcuna ha anche stretto proficue amicizie con irrecuperabili seduttori latini da riviera. Il tema è più alto. Riconoscere l’importanza del contrario, dell’altro da sé. Il dribbling inatteso, la furbizia da guitti, lo spariglio italiano. The other side of the Moon, Genau.

 

Per questo coltivano il culto di Gerd Müller, piccolo e imprendibile, furbo e scuro come un calabrese. E di Littbarski, anche, con quelle gambe magre e storte. Di Lothar Matthäus, con la sua genialità latina, così vicina allo stile di questi nuovi fenomeni che da qualche anno arrivano sempre lontano. Con l’apporto decisivo dei tedeschi di seconda generazione, va detto. La squadra che ha sedotto tutti nel 2010, giocando il più bel calcio del Mondiale (memorabile il 4-0 all’Argentina sotto alle Table Mountains, a Cape Town, dopo il 4-1 all’Inghilterra di Capello con gol fantasma di Lampard) prima di cedere alla capocciata di Puyol a Durban, era infatti profondamente contaminata dall’immigrazione, da un melting pot inimmaginabile fino a qualche anno prima. I turchi e i polacchi, addirittura gli africani. Spiegatelo ai puristi della razza, ai professionisti dell’ultradestra. Il risultato estetico fu bellissimo, una squadra Sturm und Drang dal carattere romantico e dall’entusiasmo giovanile. Premio della Critica, senza dubbio, ma niente coppa.

 

Quella squadra quattro anni dopo potrebbe aver trovato la sua Sintesi. Prima c’è stata la notte da leone di Balotelli a Varsavia. Gli assist di Cassano e addirittura di Montolivo (tedesco da parte di madre). Le lacrime e la solita frustrazione contro gli italiani, ulteriore conferma del teorema. Come nella morra cinese. Il sasso distrugge facilmente la forbice, ma viene incartato dal foglio. La forza muscolare e l’organizzazione metodica possono fallire, disinnescati dalla tecnica furba e flessibile, dall’intelligenza emotiva e dall’istinto. Il baco di un sistema altrimenti perfetto. E il sospetto di essere di fronte a una generazione eccezionale ma sfortunata, che fallisce nei momenti decisivi (due sconfitte in finale e due in semifinale tra Mondiali ed Europei negli ultimi sei tornei).

 

Ora sembrano diversi. Quadrati, solidi, compatti. Meno belli, certamente, ma più sicuri di sé. I protagonisti sono invecchiati di quattro anni rispetto alle corse sui prati sudafricani, hanno perso energia ma guadagnato esperienza. Hanno cominciato a vincere con i club. La finale pan-tedesca della Champions 2013 a Wembley col trionfo del Bayern Monaco sul Borussia Dortmund è stato il punto più alto. Prendono meno rischi ma gestiscono meglio la fatica e leggono bene le partite, avversari compresi. Contro Algeria e Francia non hanno fatto innamorare ma hanno sempre trovato la chiave. Die Schlüssel. Contro questi Filhos do Brasil, senza Thiago Silva e Neymar, sembrano potersi ripetere.

 

La forza del pronostico e una bella bolina, per navigare. Ventiquattro anni dopo quella notte magica, all’Olimpico, tutto sembra possibile. Adesso.