Un saggio antidoto a Piketty

Stefano Cingolani

Per il Nobel Phelps, a forza di dividere la torta del benessere, archiviamo il lievito: il dinamismo. Thomas Piketty un progressista? Non scherziamo nemmeno, andrebbe piuttosto annoverato nelle retrovie di chi vuol salvare il vecchio mondo fatto di stato sociale e diritti acquisiti.

Thomas Piketty un progressista? Non scherziamo nemmeno, andrebbe piuttosto annoverato nelle retrovie di chi vuol salvare il vecchio mondo fatto di stato sociale e diritti acquisiti, sta con quelli che pretendono di spalmare ciò che c’è e non con chi vuol creare qualcosa che ancora non esiste. “La battaglia centrale oggi più che mai è tra modernità e tradizione”, dove modernità sta per “dinamismo e innovazione”. Chi lancia questo rinnovato manifesto del progresso è un vecchio economista americano, premiato nel 2006 con il Nobel. Il suo nome è Edmund Phelps e gli addetti alla “scienza triste” (che poi, se ha ragione Phelps, triste non è affatto) lo conoscono per il suo contributo alla teoria dello sviluppo e per il tasso naturale di disoccupazione. Ora, giunto alla considerevole età di 81 anni, ha deciso di scrivere un libro senza numeri e cifre ma pieno di idee perché, questa è la sua ferma convinzione, la ricchezza delle nazioni non si fa con la tecnica e nemmeno scambiando merci, ma mettendo in pratica nuove idee.

 

Il saggio s’intitola “Mass Flourishing” (“prosperità di massa”, ma ancora meglio “fioritura di massa”), è uscito l’anno scorso, più o meno insieme al “Capitale” del francese Piketty, ma non ha ancora scalato i vertici delle classifiche. Adesso, invece, i semi di Phelps cominciano a fiorire e se ne discute sui media che fanno opinione, dal Financial Times al National Interest. Non c’è nemmeno un accenno a Piketty, ovviamente, però il volume ne rappresenta il contraltare di fatto, affronta il cuore della questione, cioè che cosa determina lo sviluppo in senso più ampio di un paese e perché mai l’occidente è finito nella trappola della stagnazione. L’economista si confronta con i grandi, da Friedrich von Hayek a John Maynard Keynes, da Karl Popper a Joseph A. Schumpeter, da Amartya Sen a John Rawls, senza trascurare Karl Marx che, sia pure in modo talvolta opposto fa da trait-d’union tra l’apprendista francese e il maestro americano. Un altro punto in comune è il respiro temporale. Per entrambi, il centro della riflessione è la storia; secondo Piketty viene mossa dalla distribuzione della ricchezza (quanto più essa è iniqua tanto meno cresce la società), Phelps invece la vede spinta in avanti dalla volontà di rischiare sempre qualcosa di nuovo. Tutti e due sono preoccupati dall’idea di giustizia. “Una economia ben funzionante di tipo moderno può essere governata in accordo con la familiare nozione di giustizia economica, focalizzandosi sui meno avvantaggiati”, scrive Phelps nell’introduzione. Ma sono divisi su come raggiungerla: conservando le conquiste del passato e dividendo i patrimoni per Piketty o liberandosi delle vecchie carabattole (tra le quali il modello neocorporativo e illiberale europeo) per Phelps.

 

In apparenza sembra che “Mass Flourishing” sia una perorazione sulla scia di  Schumpeter. Invece critica a fondo lo scientismo dell’economista austriaco e l’istituzionalismo della scuola tedesca alla quale egli appartiene. Non la tecnica di per sé e nemmeno le giuste istituzioni: quel che determina il salto di qualità è il dinamismo dell’intera società la cui radice è nella rivoluzione culturale che dal Rinascimento in poi ha portato in cima una serie di valori come creatività, esplorazione, crescita della persona in sé e per sé non solo per ammassare ricchezze. Idealista senza dubbio. Ottimista, anche troppo. Un altro storico dell’economia, David Landes, ha fatto di questi stessi segni della cultura occidentale la chiave per comprendere il salto rispetto ad altre grandi civiltà.
La prima ondata è stata condotta da italiani e olandesi, la seconda da inglesi, americani, tedeschi e francesi. “La scintilla del dinamismo ha creato la vita moderna”, scrive Phelps. L’illusione di arroccarsi in difesa di un’antica e opulenta tradizione ha condannato la Cina per oltre un secolo. E qui arriva, in fondo, il messaggio più importante per un continente anchilosato come l’Europa ricca e satolla nonostante la Grande recessione, o per gli Stati Uniti consumati dall’ossessione di non essere più in grado di esprimere le stesse energie, in piena sindrome dell’eterno ritorno: la crisi economica, l’Afghanistan, l’Iraq, il terrorismo islamico, la Russia neo imperiale. Europa e America stanno perdendo non solo la voglia, ma la capacità di spingere lo sguardo in avanti. Un tragico errore. Nell’ultimo capitolo Phelps invita caldamente a “riguadagnare la modernità, restaurare il sistema di desideri e sogni”. Come? “L’odierna crisi dell’occidente sta nella mancata consapevolezza, da parte dei suoi leader, di quanto sia importante il dinamismo. Accettarlo è la principale fonte di crescita della produttività e del reddito”. Ciò dipende certo dalla politica, dal funzionamento delle strutture sociali e delle istituzioni politiche, ma, ancora una volta, bisogna prima conquistare le menti e i cuori.

 

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