L'Uruguay vince 1-0 e va agli ottavi. L'Italia è fuori (foto LaPresse)

Italia fora dai cojones

Lanfranco Pace

L’Italia va a casa, Prandelli e Abete pure. Non è bastato alla Nazionale avere il primo mister renziano della storia. Che dalla sua sembrava avere lo stato di grazia, l’aura e forse un po’ del culo che per ora accompagnano l’attuale presidente del Consiglio.

L’Italia va a casa, Prandelli e Abete pure. Non è bastato alla Nazionale avere il primo mister renziano della storia. Che dalla sua sembrava avere lo stato di grazia, l’aura e forse un po’ del culo che per ora accompagnano l’attuale presidente del Consiglio. Ma c’è una legge ferrea che non ammette eccezioni: se per centottanta minuti si fanno cinque tiri in porta e nella terza decisiva partita, quella del dentro o fuori, non se ne fa addirittura nessuno, allora si esce. E’ giusto così. Ed è giusto che chi ha responsabilità se ne vada. Si torna a casa in malo modo. A capo chino e sulle rotule. E’ da bambini viziati recriminare sull’arbitraggio, su un’espulsione considerata eccessiva e non si capisce perché, per altro avvenuta dopo un rigore netto a favore dell’Uruguay che l’arbitro non ha nemmeno visto. E’ da telecronisti con angoscia del ritorno anticipato attaccarsi a un morso tanto ferino quanto inutile ai fini del gioco e del risultato. L’Italia è entrata al Mondiale tirandosi alquanto su per i capelli, siamo tra le prime quattro, dicevano: ne esce tra le seconde sedici, una posizione molto più corrispondente alla realtà dei rapporti di forza e al rango internazionale. L’Uruguay era una brutta bestia che andava dominata sul piano fisico, psichico, nervoso. L’Italia ha retto più o meno un’ora, vincendo molti dei dieci duelli uomo contro uomo: Verratti si è permesso anche veroniche e tunnel ai danni di quel carognone di Suarez, persino Di Sciglio, ragazzo timido che quando incrocia la controparte Jimenez abbassa lo sguardo, si dà una ravanata, sistema gli attributi e si riprende. Purtroppo per i giovani e per quelli che già dettero il meglio otto anni fa in Germania, il vero uomo in pieno stato confusionale è il Ct.

 

Prandelli alla vigilia dice che dobbiamo giocare per vincere, poi pare si convinca che possa andare bene lo zero a zero, in corso d’opera fa cambi da manicomio. E quando all’improvviso restiamo in dieci, andiamo sotto e bisogna recuperare non c’è più nessuno che possa anche solo osare un tiro decente in porta: non c’è più Balotelli, giustamente sostituito perché nervoso falloso e inutile, non c’è più Immobile, non ci sono né Cerci né Insigne tenuti a fare panchina, i nostri punteros diventano Parolo e Cassano. Il telecronista grida ossessivamente, buttala dentro e prega. Appunto, amen. Poi, per dirla tutta, se non avessimo perso con l’Uruguay non saremmo comunque andati lontani: avremmo incontrato la Colombia, uscire al primo turno o uscire agli ottavi, è dettaglio irrilevante anche per le statistiche. Cesare Prandelli è stato nominato Ct per ragioni etiche ed estetiche, è una brava persona, fa volentieri opere di carità, è elegante, si veste bene, è glamour, non è Marcello Lippi che la stampa inglese bollò come mafioso per via della faccia strafottente e del sigaro. Ciò non di meno Prandelli fu mediano legnoso e spesso relegato in panchina quando giocava, come allenatore ha fatto le sue classi a Firenze, poi direttamente in nazionale. Ha fatto buone cose ma nei momenti topici crolla: ci portò fino in fondo agli Europei, li perdemmo, perdere nel calcio ci sta sempre ma quattro a zero in una finale, no, non può starci mai. Avremmo dovuto mettere un termine alla sua avventura in azzurro in quel momento. Si dimette anche il presidente federale, salvo ripensamenti, se ne va l’azzurro più di lungo corso della storia. Non tutte le sconfitte vengono per nuocere.

 

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  • Giornalista da tempo e per caso, crede che gli animali abbiano un'anima. Per proteggere i suoi, potrebbe anche chiedere un'ordinanza restrittiva contro Camillo Langone.