Matteo Renzi (Foto La Presse)

Basta con l'autogestione dei burocrati

Marco Valerio Lo Prete

Tesi per rompere il “monopolio collusivo” dei mandarini. Parlano Valotti (Bocconi) e Di Gaspare (Luiss).

Roma. “Il deficit è grande a sufficienza per badare a se stesso”. Che davvero lo abbia detto o no, Ronald Reagan sicuramente lo pensava. Il presidente degli Stati Uniti era convinto che i problemi dei conti pubblici si sarebbero comunque risolti, quasi naturalmente e senza interventi ad hoc, a patto di raggiungere ritmi di crescita del pil più sostenuti. Oggi, con un parallelo ardito, si può sostenere che in Italia cresce il partito dei “reaganiani” sulla Pubblica amministrazione. Non si tratta di liberisti, ben inteso, ma di quanti ritengono che la classe politica andrà pure rottamata, l’economia necessiterà pure di riforme, ma la burocrazia è un discorso a parte. La Pa è grande a sufficienza per badare a se stessa, per autoriformarsi senza interventi esterni ad hoc che nascondono velleità d’asservimento alla politica. Questa la tesi degli avversari più radicali della riforma della Pa avviata dal governo Renzi nel Consiglio dei ministri di venerdì scorso e di cui oggi si attende il testo definitivo in Gazzetta Ufficiale. Avversari come Guido Viale per esempio, intellettuale ed editorialista del Manifesto, il cui pensiero non coincide esattamente col tentativo ostruzionistico dei sindacati. Viale, sul Manifesto di mercoledì scorso, ha detto che il governo Renzi sta riservando il solito “bastone” ai dipendenti pubblici. Dopodiché ha proposto alcune considerazioni. La prima: misurare la produttività del settore pubblico è compito arduo, soprattutto se non si tiene conto che “a ridurre il valore aggiunto” del lavoro dei travet concorrono tangenti, urbanizzazione selvaggia e altri fattori che “dipendono dalla politica”. Si fonda perciò su false premesse “il dogma che privato è efficiente e pubblico no”. Come dimostrerebbero anche recenti fatti di cronaca (vedi lo statuto privato del Consorzio Venezia Nuova), “l’alternativa non è tra pubblico e privato; è tra pubblico e privato, da un lato, e comune, cioè trasparente e partecipato, dall’altro”. Altra considerazione di Viale: i criteri di competizione e meritocrazia, con corollari come la possibilità di licenziare, non si adattano alla Pa. “Chi decide del merito? La gerarchia, cioè chi si trova già ‘al di sopra’; e non per merito, ma per qualche altro motivo”. Infine associare la riforma a obiettivi di contenimento della spesa pubblica equivarrà a “tagliare i servizi per ripagare debito pubblico”. “Come uscirne?”, si chiede Viale. Con la “partecipazione” dei dipendenti, “ufficio per ufficio, in un confronto aperto con gli utenti”, per “entrare nel merito di come deve essere organizzato e funzionare il loro servizio”. “Un’opera di autoeducazione alla condivisione delle responsabilità e un presupposto essenziale per rifondare dal basso la democrazia. (…) Utopia? No”. E in effetti più che alla “utopia” siamo al “già visto”. Viale usa toni evocativi, ma in fondo descrive la realtà di una Pa che, emancipatasi dal principio gerarchico di matrice cavouriana, da anni non accetta correttivi di sorta: né una parziale privatizzazione del rapporto di impiego, né una più temuta responsabilizzazione di fronte ai cittadini.

 

In un contesto di “partecipazione” dei dipendenti pubblici, di “autoeducazione” e di “condivisione della responsabilità” – scrive Guido Viale sul Manifesto – “diventerebbe più semplice anche affrontare la mobilità interna” dei lavoratori. Finora, anche se libertà di assemblea e libertà sindacale sono ovviamente garantite in tutti i palazzi della Pa, di questa “autoeducazione” non si sono visti i risultati: così in questi giorni i sindacati, per esempio, hanno attaccato le misure del governo per facilitare la “mobilità” dei lavoratori. Se esigenze d’organizzazione richiederanno lo spostamento di un dipendente – è scritto nel decreto – non saranno più possibili veti dalle amministrazioni d’origine o riceventi, né sarà necessario l’assenso del dipendente se lo spostamento è in un raggio di 50 chilometri. Il Grande raccordo anulare attorno a Roma è lungo quasi 70 chilometri, e dunque parlare di “rivoluzione” potrebbe apparire esagerato. Tuttavia tanto è bastato per far impuntare i rappresentanti dei lavoratori, inutilmente blanditi dalla revoca del “trattenimento in servizio” che dovrebbe consentire 15 mila assunzioni nei prossimi anni, e già irritati dalla riduzione del 50 per cento di permessi e distacchi sindacali. Il governo, comunque, non sembra credere alle capacità autocorrettive della Pa. Oltre al decreto, che contiene diverse misure di sicuro impatto mediatico (come la riduzione degli oneri annuali dovuti dalle imprese alle Camere di Commercio e il taglio delle parcelle degli avvocati di stato), ha varato un disegno di legge delega d’impatto potenzialmente più profondo. Tra gli obiettivi: una “riorganizzazione delle amministrazioni dello stato” per rafforzare “le strutture che forniscono servizi ai cittadini”, la razionalizzazione delle prefetture, una complessiva rivisitazione dei criteri con cui sono assunti e valutati i dirigenti pubblici. Quanto ci vorrà? E soprattutto, quale dovrà essere il metodo da seguire? Se la Pa è diventata troppo grande per badare a se stessa, come confermato dall’impossibilità di restringerne il perimetro o dal fatto che la stessa è notoriamente diventata un fattore frenante della libera iniziativa economica, quale sarà la strategia migliore per il conflitto che s’annuncia tra politici e burocrati?

 

Per Francesco Giavazzi, economista della Bocconi ed editorialista del Corriere della Sera, Renzi ha perlomeno cominciato bene, “usando la legge dello spoils system per cambiare tre quarti dei capi gabinetto. Sebbene nella maggior parte dei casi si sia limitato a spostarli da un ministero all’altro, comunque li ha spostati, con una tecnica che prima di lui aveva seguito solo il governo di Carlo Azeglio Ciampi”.

 

Giovanni Valotti, ordinario di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche alla Bocconi, al Foglio dice che “andare fino in fondo” equivale a “privatizzare davvero il rapporto di impiego”. “In teoria questo processo è stato avviato col decreto 29 [**Video_box_2**]del 1993. In realtà allora fu privatizzato, cioè riportato nell’ambito della giustizia ordinaria, soltanto il contenzioso che coinvolge i dipendenti della Pa. Ma io vorrei trattare i dipendenti pubblici come dipendenti privati anche quando non litigano”, sintetizza Valotti. Questo processo investe i metodi di assunzione, dove l’attuale forma nozionistica del concorso pubblico va superata. Tocca la responsabilità del dipendente pubblico: oggi il danno erariale è un pericolo se si sbaglia una procedura, ragiona Valotti, ma se si manca un risultato non esiste responsabilità. “Il governo, per esempio, fa bene a sostenere l’idea che la parte variabile dello stipendio non debba essere identica per tutti, altrimenti questa perde il suo senso. Come nel settore privato, se c’è crisi e l’azienda va male, i premi non ci sono”. Infine il licenziamento: “Teoricamente c’è, ma oggi una persona nella Pa non rischia il suo posto di lavoro come nel privato”. Come passare dalla teoria alla pratica? “L’obbligo di trasparenza, nell’utilizzo delle risorse e nella valutazione dei risultati, aiuterebbe molto”, conclude Valotti.

 

Il caso Vergara vs California

 

Giuseppe Di Gaspare, ordinario di Diritto dell’economia alla Luiss e direttore del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet”, sostiene che “privatizzare non basta”. Se “l’autoriforma” auspicata da Viale è irrealistica, infatti, è necessaria “una maggiore spinta alla concorrenza, più che alla privatizzazione. Occorre concepire e sostenere un potere diffuso, esterno alla Pa, che possa incentivarla a seguire atteggiamente più efficienti e rispettosi dei diritti. Così avviene in tutti gli altri paesi occidentali”.

 

Il giurista prende come spunto una recente sentenza della Corte suprema californiana, di cui il Foglio ha scritto martedì scorso: il caso Vergara vs. California. Lo scorso 10 giugno la corte di quello che è considerato lo stato più liberal degli Stati Uniti, infatti, ha stabilito che impedire il licenziamento degli insegnanti pubblici viola il principio di uguaglianza di tutti, studenti inclusi, previsto dalla Costituzione. Lo stato infatti, a causa di vincoli normativi e sindacali stratificatisi nel tempo, non è più in grado di stimolare i docenti alle sue dipendenze, di premiarli o sanzionarli se necessario. Tutto ciò contribuisce ad aggravare le disparità del sistema educativo, penalizzando oltremodo i giovani cui capiti di avere a che fare con un docente sfaticato o incompetente. Si tratta di un caso rilevante, ai fini dell’attuale dibattito italiano, per varie ragioni. Politiche, certo: in California, infatti, non si licenzia per revanche populista contro i privilegiati mandarini della Pa, né per tappare in extremis i buchi di bilancio dello stato. Piuttosto i dipendenti statali vanno valutati, e nel caso anche sanzionati col licenziamento – sostiene il giudice – perché tutelare a ogni costo gli ipergarantiti può affossare le opportunità del cittadino ignoto.

 

Di Gaspare però si concentra soprattutto sugli insegnamenti giuridici del caso Vergara vs. California:  “Che il giudice californiano abbia dichiarato incostituzionali norme dello stato in contrasto con il principio di uguaglianza della Costituzione americana ci fa subito toccare con mano l’ambito di applicazione della judicial review, cioè del potere del giudice ordinario di disapplicare le norme di legge in contrasto con la Costituzione. Questo potere di cassazione è come facilmente intuibile, un forte contrappeso alla approvazione di leggi e leggine di favore e ad hoc per questa o quella categoria. Il nostro giudice ordinario non si spinge a tanto e la Corte costituzionale italiana ha da tempo un diverso orientamento”. In Italia, insomma, una sentenza simile non sarebbe stata possibile. “Potremmo però cominciare applicando l’articolo 28 della Costituzione che già prevede che i funzionari dello stato siano direttamente responsabili per la lesione dei diritti anche secondo le leggi civili – dice Di Gaspare – Finora è rimasto lettera morta perché si è fatta distinzione tra ‘diritti’ e ‘interessi legittimi’. Questi ultimi vanno intesi come posizioni giuridiche deboli e sminuite di resistenza giuridica nei confronti dello stato che può lederli senza doverli risarcire. Ora, da tre lustri, questa distinzione è per fortuna venuta meno per opera della Cassazione. Si tratta di fare l’ultimo passo avanti per adeguare la nostra legislazione sulla responsabilità dell’amministrazione a quella di tutti gli stati occidentali”.

 

In mancanza di tutto ciò – sostiene Di Gaspare – non basteranno i concorsi sul modello delle aziende private, i contratti di lavoro simili a quelli dei dipendenti privati e perfino la possibilità di licenziare come quelle che si hanno in azienda. Ecco perché: “Lo stato non fallisce, almeno finora, e pertanto non c’è interesse reciproco tra datori di lavoro e dipendenti, come nel settore privato, a una collaborazione pur conflittuale per evitare una perdita di efficienza e di competitività che porterebbe al fallimento”.

 

Altro che “autoeducazione” di dipendenti e dirigenti, come la chiamerebbe Viale: “Oggi in atto c’è una naturale collusione monopolistica che per inerzia frena il cambiamento”. Perciò “l’induzione al cambiamento può venire solo dall’esterno e la chiave di volta sarebbe la responsabilizzazione dei funzionari per danni verso i cittadini”, dice Di Gaspare. Ecco come funzionerebbe in concreto: per evitare il rischio di essere chiamati a rispondere direttamente per danni, i funzionari responsabili degli uffici dovrebbero dare la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Provare che il danno non dipende dal loro comportamento significa chiamare in causa collaboratori inefficienti, che qualcun altro non ha voluto rimuovere, o da dirigenti più alti in grado che non hanno fornito mezzi adeguati al funzionamento dell’ufficio. “Insomma l’azione per danno dei cittadini fa entrare in scena un contropotere esterno diffuso, simile al meccanismo della concorrenza, che rompe la tendenza collusiva del monopolio pubblico ad autotutelarsi e innesca un circolo virtuoso di autoriforma della Pa”. L’unica cosa che non ci si può permettere, certo, è attendere la fine dell’ennesima seduta di autocoscienza della burocrazia italiana.
Marco Valerio Lo Prete