I ripentiti

Massimo Bordin

L’idea di farlo apparire con quella maschera, a metà fra il teatro kabuki e la scena più famosa di “Eyes Wide Shut”, è stata formidabile, un colpo da maestro. Il tempo passa per tutti ma Michele Santoro resta un grande illusionista, un grande impresario venditore di sogni. Come il Cavaliere. Invecchiano insieme, ingrassano, si tingono i capelli, si spalmano sempre più cerone. Il mestiere di Santoro però è più facile. Berlusconi vende sogni con lo sfondo azzurro di cieli sereni.

L’idea di farlo apparire con quella maschera, a metà fra il teatro kabuki e la scena più famosa di “Eyes Wide Shut”, è stata formidabile, un colpo da maestro. Il tempo passa per tutti ma Michele Santoro resta un grande illusionista, un grande impresario venditore di sogni. Come il Cavaliere. Invecchiano insieme, ingrassano, si tingono i capelli, si spalmano sempre più cerone. Il mestiere di Santoro però è più facile. Berlusconi vende sogni con lo sfondo azzurro di cieli sereni. Se il pubblico si sveglia può restare deluso. Lo sfondo degli spettacoli di Santoro è buio, il sogno è un incubo e il risveglio comunque un sollievo. Con Vincenzo Scarantino il meccanismo ha funzionato ancora meglio del previsto. Se la maschera di Scarantino, oltre a catturare spettatori, aveva un indubbio valore evocativo del clima delle indagini sulla famosa trattativa – la realtà mascherata, la maschera da strappare al potere, eccetera – il dopo trasmissione con l’arresto dell’ospite principale ha aggiunto suggestione al tutto. Scarantino che viene bloccato da una macchina civetta e quattro volanti d’appoggio in esecuzione di un ordine di cattura della procura torinese per violenza sessuale a una disabile. Lo cercavano a Torino ma non erano riusciti a trovarlo. Sandro Ruotolo invece sì. In fondo consentirgli di intervistarlo e lasciare svolgere il programma prima di procedere all’arresto, è stato un gesto cavalleresco da parte dei poliziotti, un riconoscimento. E il fatto non stupisce, anche se forse dovrebbe. E anche il reato contestato, oggettivamente infamante come pochi, non solo non toglie pathos alla rappresentazione appena messa in scena ma ne conferma addirittura le evocazioni. Un drop out nel degrado palermitano, capace di tutto anche di prestarsi ad accusare innocenti nell’ambito di un mostruoso depistaggio non certo architettato da lui, un po’ vittima e un po’ carnefice.

La suggestione funziona, a patto che non si entri nei dettagli come fa Marco Travaglio, personalità diversa dall’illusionista di Furore. Anche quella sera stava per rovinare tutto nel momento in cui è inevitabilmente venuto fuori che fra i pm che a Caltanissetta avvalorarono il “mostruoso depistaggio”, malgrado Scarantino ogni tanto ritrattasse tutto e denunciasse torture e suggerimenti, c’era anche il dottore Nino Di Matteo, l’attuale frontman dell’accusa nel processo sulla trattativa. “Era lì solo da due mesi, non poteva accorgersene” ha dettagliato Travaglio. Una balla che per fortuna nessuno ha notato. Di Matteo era lì dal ’92 e ha seguito le indagini dall’inizio oltre a tenere la requisitoria in primo grado nella quale sostenne che proprio le ritrattazioni reiterate da Scarantino erano un indizio del fatto che la sua confessione era vera. La questione ha la sua importanza ma intanto vale la pena considerare un aspetto generale. L’indagine sulla trattativa funziona se resta come sfondo suggestivo. Ha avuto bisogno di diversivi già nell’ultima fase dell’istruttoria quando i fuochi artificiali del pataccaro Massimo Ciancimino si erano trasformati in candelotti bagnati. La grande saga delle telefonate quirinalizie a questo servì, a stornare l’attenzione mantenendo vivo l’interesse. Col processo in sé le telefonate fra Nicola Mancino e il povero Loris D’Ambrosio non c’entrano nulla, se mai supportano la tesi difensiva, dal momento che, ascoltate senza pregiudizi, mostrano che Mancino è terrorizzato perché non capisce letteralmente che cosa vogliono da lui i giudici, della trattativa non sa un accidente e chi sa a che pensa. Se però quelle telefonate si fanno precedere da una introduzione di Sandro Ruotolo il telespettatore si convincerà di stare penetrando il cuore nero degli “arcana imperii”.

Funziona, ma il plot esige continue novità per evitare che si guardi più in profondità e si arrivi allo scheletro del processo che ha fratture visibili a occhio nudo. Meglio evitare i dettagli e offrire piuttosto emozioni sempre nuove. Totò Riina e la sua spalla pugliese da questo punto di vista hanno funzionato magnificamente. Mentre nell’aula della corte d’assise il processo non faceva un passo avanti, tutti gli sguardi sono stati attirati sull’angusto e squallido cortile di un carcere dove un vecchio imbacuccato, opportunamente provocato, concionava di “Berluscone” e di “cornuti da far saltare in aria”. E’ stato uno dei video più cliccati, alla faccia del 41 bis che i divulgatori dei proclami e delle condanne a morte del boss ritengono in continuo pericolo di attenuazione ma quando serve sono pronti a ignorare. Formidabile, ma anche l’effetto Riina dopo un po’ si è perso e non si è trovato che Scarantino con la maschera kabuki. Gli effetti speciali funzionano ma fino a un certo punto, rischiano di divorarsi l’uno con l’altro. Per esempio alla prima firma di Repubblica in materia di mafia, Attilio Bolzoni, nel pieno dell’affare Riina scappò scritto che in fondo la saga delle telefonate del presidente era “tutta fuffa”. E allo stesso modo un altro giornalista, Giovanni Bianconi, che non può essere sospettato di preconcetti verso i pm palermitani, irritato dall’esibizione di Scarantino ha scritto un articolo sul Corriere intitolato “Il valzer dei falsi pentiti di mafia”. Forse è fin troppo severo con Scarantino, ma è innegabile che il discorso che sviluppa abbia un fondamento. In soldoni, perché presentare come attendibile, nel momento in cui accusa un funzionario che è morto come il prefetto Arnaldo La Barbera di essere stato l’ideatore del depistaggio, uno che sicuramente ha già mentito accusando se stesso ma anche altri innocenti?

La storia di Scarantino è paradossale. L’unica cosa certa è che definire le accuse che fece sulla strage di via D’Amelio un “raffinatissimo depistaggio” è una penosa buffonata. Nel corso del processo di primo grado Scarantino ritrattò le accuse in due diversi momenti, la sua famiglia denunciò torture e minacce da lui subite. Nel corso del processo l’avvocato Rosalba De Gregorio, che difendeva gli innocenti accusati dal falso pentito, dimostrò alcune evidenti incongruità delle accuse. I giornalisti che riportarono le denunce dei familiari di Scarantino, pochi, vennero tacciati dal procuratore Giancarlo Caselli, in una conferenza stampa a Palermo dove viveva la famiglia del “pentito”, di essere il megafono di una campagna della mafia contro i pentiti. Sta di fatto che già allora in procura a Caltanissetta sapevano che c’erano pentiti che messi a confronto con Scarantino lo avevano sbugiardato mettendo in guardia gli inquirenti. Ciò malgrado si è giunti lo stesso a condanne sulla base di quelle accuse. Parlare oggi di depistaggio ordito dalla solite “menti raffinatissime”, sostenere che i magistrati dell’accusa non avevano elementi per rendersi conto di quello che stava succedendo è francamente ridicolo. Come cervellotico appare far rientrare la vicenda nella trama della trattativa. La storia di Scarantino è se mai indicativa di una questione che il processo sulla trattativa sta riportando d’attualità attraverso quello che succede in aula con “il valzer” di cui parla il Corriere e che merita di essere approfondito.

Di fronte alla corte d’assise stanno sfilando personaggi che hanno animato decine di processi di mafia con le loro dichiarazioni. Entrano nel processo per qualche risposta data altrove che può essere piegata a una utilizzazione nell’impianto accusatorio. L’operazione per la verità non sempre riesce o, nel caso di dichiarazioni non marginali, ha un costo perché mentre da un lato l’accusa conquista qualche tessera del suo mosaico, altre vengono distrutte dallo stesso dichiarante in altre risposte della sua deposizione o si trovano in contraddizione invece di comporre un disegno armonico.

C’è poi un aspetto che riguarda la sospetta tempestività di certe dichiarazioni. L’articolo di Bianconi cita la deposizione di Francesco Di Carlo, un pentito che ha detto la sua su molte vicende oscure, per esempio la morte di Roberto Calvi, con alterne vicende processuali. Solo di fronte alla corte d’assise palermitana Di Carlo si è ricordato di un particolare che mai aveva rivelato e cioè di aver ricevuto mentre era detenuto un emissario dei servizi segreti che lo mise a parte di un piano per allontanare da Palermo Giovanni Falcone, quando era ancora all’ufficio istruzione. In compagnia dello spione c’era un’altra persona che Di Carlo ha assicurato di aver successivamente riconosciuto in foto come Arnaldo La Barbera, lo stesso funzionario che ora Scarantino accusa del depistaggio. Solo che Di Carlo si è pentito nel 1996 e solo qualche settimana fa si è ricordato di questo episodio, anticipandolo in una intervista. Si può convenire che la scansione temporale non è tranquillizzante.

Episodi processuali di questo tipo dovrebbero rimandare a una legge che regolamenta tempi e modi delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, una cui modifica viene inserita fra i vantaggi ottenuti dai mafiosi proprio con la trattativa di cui si occupa il processo. La legge nel 2001 viene modificata inserendo un termine di sei mesi entro i quali il collaboratore deve dire ai magistrati tutto quello che sa. La logica della modifica stava nella volontà di evitare il fenomeno delle dichiarazioni a rate che diversi pentiti, a cominciare da Buscetta avevano adottato come metodo. In teoria all’inizio della collaborazione si stende un verbale illustrativo delle questioni che verranno trattate e nel tempo dei sei mesi si procede alla verbalizzazione e alla sistemazione contestuale delle misure di protezione e del sostentamento. Passati i sei mesi la situazione da provvisoria diviene definitiva se il pentito prova la sua attendibilità e utilità. La legge venne subito osteggiata da settori della magistratura e alcuni, per esempio Marco Travaglio, vi vedono la traccia di un favore ai mafiosi, dovuto proprio alla famosa trattativa, visto che limita le dichiarazioni a loro danno. Per la verità si è trattato di una razionalizzazione da molti altri ritenuta necessaria e in ogni caso non si può convenire con una logica che spinge a considerare qualsiasi modifica legislativa che amplia i diritti di difesa il frutto di un colpevole baratto con la criminalità. Ma il dibattito in fondo è ozioso perché come suol dirsi “fatta la legge, trovato l’inganno” e nel caso è bastato prevedere la possibilità di proroga dei sei mesi, con una sentenza della Cassazione nel 2009 che consente proroghe anche di anni.

La questione di Di Carlo è comunque interessante al di là degli aspetti legislativi. Intanto il personaggio è notevole. Si può dire che rappresentasse il lato mondano di Cosa nostra. Ha gestito a lungo fino agli anni 70 un night club ben frequentato nei dintorni di Palermo. A un certo punto viene però espulso da Cosa nostra per una questione di soldi legati a un carico di droga. In genere per cose di questo tipo all’interno del sodalizio le sanzioni sono più cruente ma il nostro proviene da una famiglia potente di Altofonte. Viene sostituito dal fratello come capo famiglia e ci si accontenta che si tolga di mezzo. Va a Londra e anche lì abbina vita mondana e traffico di droga. Fino a che la polizia inglese lo arresta, e come si dice, butta la chiave, visto che era implicato in traffici in grande stile con organizzazioni internazionali. Un altro pentito di Altofonte, Salvatore La Barbera, ha raccontato ai giudici della corte d’assise che in Cosa nostra, saputo dell’arresto londinese, era scattato l’allarme rosso perché saggiamente i mafiosi avevano previsto che al loro mondano ex affiliato non restava che una strada, quella di pentirsi per ottenere l’estradizione in Italia e qui giocare le sue carte. Dunque, ha raccontato La Barbera, i suoi familiari, rimasti mafiosi, erano stati avvertiti di non dirgli assolutamente nulla di compromettente per l’organizzazione. Messe così le cose e tenendo conto che la condanna inglese a 25 anni è del 1987, non si vede come Di Carlo possa essere di qualche utilità nell’inchiesta sulla trattativa. Per di più un’altra sua recente performance giudiziaria non depone a suo favore. Si tratta di un processo su una vicenda ormai antica, il sequestro e l’omicidio del giornalista Mauro De Mauro avvenuto nel 1970. Antonio Ingroia aveva incardinato un processo con Riina unico imputato perché unico sopravvissuto fra i possibili colpevoli. In primo grado il pm ottenne il poco lusinghiero risultato di vedere assolto Riina, un evento che non si ripeteva da quarant’anni. In appello la procura generale cambiò tattica. “Non neghiamo che in primo grado si sia fatta un po’ di confusione, ma ora rimettiamo le cose a posto. C’è da valorizzare una deposizione che permetterà di ribaltare il risultato”.

E comparve Di Carlo, che assicurò di aver partecipato alla riunione nella quale Riina dette l’ordine di uccidere il giornalista. Si profuse in particolari, ma non servì. Riina è stato di nuovo assolto. Altri pentiti sentiti in queste settimane nel processo sulla trattativa hanno almeno qualche attinenza in più con la vicenda. Per esempio Gaspare Mutolo, l’accusatore di Bruno Contrada. Mutolo si pentì nel ’92, dopo un intenso travaglio o almeno così dice. Un qualche contributo alla sua decisione deve anche averlo dato l’andamento del maxi processo che vide in appello un suo nipote pentirsi e offrire nuovi elementi per aggravare la sua posizione già pesante in primo grado. Per di più il pentimento di un parente non è mai apprezzato dagli altri membri dell’organizzazione. La logica che li guida li porta a pensare che il loro sodale “si è cresciuto un infame”. Pentitosi, per intimo travaglio o per legittima difesa, Mutolo cercò subito di vendicarsi dei personaggi che lo avevano incastrato e chiamò in causa per primi il pm del maxi processo Signorino, che si suicidò, e il poliziotto Bruno Contrada, che si difese. “ Mutolo me lo ricordo bene. L’ho arrestato più volte. Una volta ci fu una sparatoria e morì un agente. Quando lo interrogai non ero sereno e lui invece faceva l’arrogante. So che non si deve fare e chiedo scusa, ma gli ruppi una sedia in testa”. Evidentemente se ne ricordava bene anche Mutolo, che appena si pentì accusò Contrada di fronte al giudice Borsellino, nel suo primo interrogatorio che si svolse, con una interruzione, a Roma nella sede della Dia. Era il 7 luglio 1992, giorno di insediamento al Viminale del nuovo ministro Nicola Mancino. Borsellino insieme al collega Gioacchino Natoli è invitato a presenziare. Quando torna, racconta Mutolo, era sconvolto. Questa deposizione è stata alla base del coinvolgimento di Mancino nel processo. All’inizio si pensò che Borsellino avesse appreso da Mancino della trattativa in corso. Per la verità, nel processo in cui è imputato di falsa testimonianza, Mancino di quell’incontro non deve rispondere perché nessuno lo ha imputato. E Mutolo davanti ai giudici ha raccontato il seguente scambio di battute: “Giudice, la vedo sconvolto. Che le ha detto il ministro?”. “Ma quale ministro e ministro! Ho incontrato Contrada e ti manda i suoi saluti!”, avrebbe risposto Borsellino. Se si vuole credere a Mutolo, non sarebbe obbligatorio, in ogni caso la trattativa non c’entra. Ma il pentito è di nuovo in pista e magari sta contrattando nuove condizioni.

Infine è stato sentito Giovanni Brusca, uno dei capi e almeno testimone davvero importante per l’accusa. E’ l’uomo che ha parlato per primo del famoso “papello”, quello che poi Massimo Ciancimino ha prodotto in fotocopia. Brusca disse di averne sentito parlare da Riina. Le parole del capo dei capi, raccontate da Brusca, sono un pilastro del processo: “Si sono fatti sotto. Gli ho dato un papello così di richieste”. In aula ha aggiunto di avere saputo da Riina che il papello era arrivato nelle mani di Mancino. Solo che in precedenti dichiarazioni ha fatto un po’ di confusione sulle date, posizionando la notizia ricevuta a quando Mancino non era ancora ministro e non si capisce perché avrebbe dovuto essere coinvolto.

Brusca è comunque un tipo più complesso di quanto possa apparire. Il suo pentimento è ancora sostanzialmente sotto esame. Questo da un lato dilata oltre misura la questione dei sei mesi che abbiamo visto prima, da un altro lato getta comunque un’ombra sulle cose che dice. Dopo il suo primo pentimento i magistrati gli hanno imputato azioni ancora da mafioso che lui nega o per altri versi giustifica. Sostanzialmente c’è ancora un contenzioso aperto, una trattativa si potrebbe dire. E’ un tipo complesso perché se da un lato era soprannominato “lo scanna cristiani”, e ne ha scannati e fatti scannare davvero tanti fra cui un ragazzino di 14 anni strozzato e sciolto nell’acido, pure se “pentito” parla di queste cose con agghiacciante freddezza. Una volta raccontò che sciogliere i cadaveri delle vittime nei bidoni con l’acido era una tecnica relativamente recente. “Prima li bruciavamo in campagna ma ci voleva troppo tempo”. Per poi aggiungere: “Questi aspetti della mia attività non mi hanno mai particolarmente impressionato”. Dove è rilevante non la mancata impressione ma la definizione di attività. E anche l’eloquio, raramente dialettale e perfino con qualche parola ricercata. Del resto Riina gli aveva affidato la supervisione degli appalti e Brusca andava spesso a Roma, scendeva in albergo a via Veneto e poi partecipava a incontri anche nei ministeri. Lo “scanna cristiani “ è uomo di mondo e forse ha capito che nel processo bisogna inserire qualche nome più pesante e così nella sua deposizione ha citato Berlusconi. “I contatti con lui sono precedenti alla sua discesa in politica. Decidemmo di cercarlo nel 1991 per entrare in contatto con Craxi che ci serviva per influire sui giudici della Cassazione per il maxi processo”. Brusca è furbo nel fare il nome di Berlusconi ma esagera. Perché se fosse vero che il vertice della mafia pensava nel 1991 che l’uomo più adatto a convincere i giudici della Cassazione fosse Bettino Craxi, allora vorrebbe dire che i rapporti fra la mafia e la politica semplicemente erano inesistenti. E il processo potrebbe chiudersi perché non avrebbe senso.

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