Mamma li berzaijeri

“Questa è una città ingovernabile”

Stefano Di Michele

Ci mise poco, il generale Cadorna, a capire che più che la capitale aveva acchiappato una bella rogna. A Roma trovò 226 mila abitanti, di cui metà campava con l’elemosina del Papa Re, mucchi di ruderi e catapecchie, anticagliari e monnezza

“Ci bisognerà preparare barili d’acqua santa per purificare questo Quirinale, quando ci torneremo o Noi o i Nostri successori”
(Monsignor Negroni, Maestro di Palazzo, a Pio IX, dopo la conquista di Roma da parte dei bersaglieri del re).

 
Ci mise davvero pochi giorni, il generale Raffaele Cadorna, dopo il trionfale (trionfale a memoria futura, di retorica necessitata: nello specifico una mezza scaramuccia, du’ cannonate e cinque sparate) ingresso a Roma*, a capire che più che la capitale del regno avevano innanzi tutto acchiappato una bella rogna. “Questa è una città ingovernabile”, sacramentò più prima che dopo l’austero militare. Che Oscaretto er Cerretano, cantastorie a Campo de’ Fiori, così rappresentava a venditori de cicoria e a venditori dell’acqua der Tevere, “una mano santa contro la risipola e il mal di pietra”, che lo stavano ad ascoltare, tra la piazza e le “osterie a cinque bajocchi la foijetta” – tutti incuriositi, nessuno impressionato: “Questo generalone pieno di medaglie che vado ad indicare è il comandante supremo dell’esercito di re Vittorio Emanuele II…”.

 
Perciò, eccoci all’arrivo delle milizie piumate e trombettanti, di cui resta a Porta Pia testimonianza con apposita statua ivi posta nell’anno X E. F., dar ducesco Mascellone commissionata, tutta perfettamente recante: tromba e schioppo e piumaggio, alate parole scolpite a conforto dell’impresa e a sconforto dell’estetica linguistica: “Appena un secolo di storia, ma quanti sacrifici, quante battaglie e quanta gloria!”, da un lato; “Nulla resiste al bersagliere”, dall’altro (quest’ultima impegnativa affermazione arricchita, per decenni, da un’annotazione posta a mano, certamente da qualche militare in tutt’altro assalto, ben più periglioso, affaccendato: “Tranne che Rosetta” – la stessa dimostrandosi meno cedevole delle mura della città papale). Quando Cadorna arriva, con il suo seguito di Monsù Travet, dai romani prontamente riciclati quali “buzzurri”, a portare sabauda civilizzazione di porticati e ministeri e Vermouth lestamente ribattezzato vermutte, questo trova: 226 mila abitanti, di cui 100 mila campavano con l’elemosina del Papa Re, quasi 7 mila religiosi, oltre 600 tra chiese e conventi, 82 palazzi nobiliari, “mucchi di ruderi, anticagliari che allo stesso prezzo mollavano la patacca o il reperto prezioso, catapecchie affacciate sul Tevere, i monticiani sempre in guerra con i trasteverini, orti e vigne nei prati di Castel Sant’Angelo e di Testaccio, strade ingombre d’immondizie e di bisogni corporali…”. Tutte notizie (tranne Rosetta: sempre “tranne”, quella) tratte da un divertente libro sui primi trent’anni di Roma capitale, “E arrivarono i bersaglieri”, scritto da Sergio Valentini (La Lepre Edizioni): non un volume di storia, di cronaca più che altro – di canzoni e aneddoti e facce, del “fiume bojaccia” che se ne andava a spasso, a suo piacere e a sua portata, per le strade papaline, e che fu lestamente imbracato in argini alti diciassette metri.

Il povero Pio IX, in Vaticano asserragliato, scomunicava i piemontesi di fresca calatura nordica, insieme a “tutti coloro i quali perpetrarono l’invasione, l’usurpazione, l’occupazione su qual si voglia provincia del Nostro dominio, e su questa Alma città, e parimenti i loro mandanti, favoreggiatori, aiutatori, consiglieri, aderenti”. Intanto, a tre mesi dal buco fatto nelle fragili difese, ecco andare in scena al Teatro Apollo “Flik-Flok” (presentato quale “balletto per bersaglieresse”, essendo piuttosto azzardato un “balletto per bersaglieri”, a disdoro della mascolinità sabauda), per iniziativa dell’impresario Jacovacci detto “er sor Cencio”, con vitellino e vaccaro in scena a simbolo delle plebi romane invocanti i piemontesi – che figurarsi: “Dai vojantri berzaijeri / che ciavéte la gamba bbona / su curete presto a Roma / pe’ venicce a libberà…”. Poi il coro zompettante delle “bersaglieresse” – apripiste risorgimentali di future poliziotte perverse e infermiere zoccole e monachelle assatanate – coscia e canto votati alla causa: “Da la breccia di Porta Pia / ce sò entrati li berzaijeri, / belli, tosti, gajardi e fieri…”. Ma fuori dal teatro gli affari (al gran ribollire di ormoni attinenti) languivano, così che Nuccia la Zozzetta, Cesira, Totarella, Agnesina e Romola la Chiappona ebbero a farne pubblica lamentazione: mejo li preti, per la battona, che le nuove capocce piumate in giro per Roma. Se poco erano fatti per capirsi romani e piemontesi, ancora meno potevano intendersi i seguaci dei Savoia e l’intero cucuzzaro pretigno. I “Liberi pensatori”, liberamente pensando, misero in strada un carnevale di cardinali allupati, preti laidi, monache poco caste, così che Pio IX quali “emissari di Satanasso” li bollò. E non poteva altro che bollare (mentre di rabbia non sbolliva), il Santo Padre, vedendo nascere riviste come L’Anticristo o romanzacci dove le vergini erano insidiate dal losco porporato Procopio.
 

“Falange infernale!”, faceva voce il Papa. Pubblicazioni “imbrattate dalla più velenosa bava dell’inferno” – pure. Del resto la nobiltà romana, al Santo Padre devota ma agli affari nuovi devotamente propensa, un figlio al Padreterno e uno alla monarchia magari consegnava, un’occhio al triregno e uno alla corona. Era il momento delle storiche decisioni. Così, con gran saggezza e temerarietà, don Alessandro Torlonia cambiò le livree ai servi suoi, che erano rosse e potevano confondersi con quelle savoiarde, ma intanto suo nipote Leopoldo (già la storia volgeva al cazzeggio gossiparo) apriva la villa sua “a un déjeuner sur l’herbe in onore della principessa Margherita di Savoia”. E non per dire, ma “don Marcantonio Borghese vantava il figlio primogenito don Giulio comandante dei dragoni pontifici e il cadetto don Francesco volontario nei bersaglieri del generale Cadorna”, pur mantenendo per il Natale sdegnosamente serrati i palazzi delle casate – visto mai. E così, la nobiltà romana, di salda fede nei secoli passati e di solidi investimenti nell’avvenire, vendeva i suoi terreni, come tutti a Roma vendevano. “Vendevano orticultori e viticultori. Vendevano padroni di greggi e bovari. Vendevano gli enti ecclesiastici per prevenire l’esproprio. Vendevano le undici famiglie patrizie che possedevano quasi la metà dei terreni all’interno delle mura aureliane”. E infatti Pasquino – cuore di pietra e lingua lesta – trafigge: “Chigi, Torlonia, Ruspoli, Cesarini, / Colonna, Borghese, / Doria e Aldobrandini, / la bocca è pe’ la Chiesa, / er còre pe’ li quattrini”.

E sì che un minimo di resistenza i preti c’avevano provato a farla. Una cosa, a dir la verità, e a leggerla raccontata nelle pagine di “E arrivarono i bersaglieri”, da stringere il cuore e da consigliare al Santo Padre, quale soluzione, solo di darci sotto con i rosari. Esattamente un mese prima di Porta Pia, “a Piazza Farnese fu sistemato un baracchino dove don Eugenio Ricci, vice parroco di San Nicola in Arcione, Checco lo speziale, Tuta Galanti la mammana, Laudadio il farmacista di Campo de’ Fiori, e il vecchio Klikte de Lagrange ex ufficiale della Guardia Svizzera provvedevano all’arruolamento dei volontari”. Pochi di numero e di poca efficacia. “Si arruolò Gennaraccetto de Trastevere, figlio del glorioso Gennaraccio de Trastevere, che aveva comandato i cappelletti di monsignor Governatore barone Cappelletti” – e che in tanto parapiglia pure un apposito inno aveva composto: “Santo Padre nun tremate / si sentite le schioppettate / semo pochi, ma fedeli, / e cce brùcieno li peli”. E infatti bisognava vederlo – una tristezza che stringeva er core – il giorno della sconfitta ’sto esercito papalino uscire in fila indiana da Porta Angelica, “zuavi e antiboini di Francia, poi dragoni, carabinieri esteri, zappatori col berrettone di pelo, Legione Romana, Stato Maggiore Generale, gendarmeria, artiglieria, genio, cacciatori, fanteria di linea, cappellani e sedentari”. E gente d’ogni razza, tre turchi dell’Anatolia, quattro americani di Boston, due brasiliani non meglio identificati. Uno del Perù, uno del Messico, uno del Marocco. L’Osservatore Romano annotò pure la presenza di “un Oceanese”, qualunque cosa significasse. I fratelli tamburini er Panzella e Tiburzio. C’erano gli zampitti, abruzzesi e ciociari, con ai piedi, appunto, le ciocie della Ciociaria. Ah, poi ecco la Guardia Nobile, il generale attruppamento de tutti li meji figli, diciamo così, di Sua Santità. Non che avessero compiti spaventevoli, rischi gravosi da correre: “Il ‘Regolamento di disciplina’ prevedeva, in dieci articoli, l’attività di ognuno: quale Guardia Nobile cavalcasse alla portiera dritta della carrozza di Sua Santità, quale ne aprisse o chiudesse lo sportello, quali e quanti restassero di scorta ‘nell’anticamera dei Camerieri di spada e cappa essendo Camerieri segreti’”. Insomma, roba che pure un semplice raccoglitore di cicoria, senza sanguinaccio color cobalto, saprebbe benissimo come affrontare: siamo, inevitabilmente, dalle parti del Marchese del Grillo e di Alberto Sordi. E infatti, sintetico e perfetto, riecco quello screanzato der Pasquino, “…’ste Guardie Nobbile der cazzo”.

Ora, a rileggere queste cronache, appare chiaro che Papa e romani e piemontesi non avevano neanche né la lingua né la logica per capirsi – dove una cosa sembrava sensata, di là completamente insensata era intesa. Ecco il Santo Padre che s’aggira, pensoso e incazzoso, per il Vaticano con l’intera sua Famiglia Pontificia. Che si va ad elencare: “Segretario de’ Brevi, Segretario del Buon Governo, Cifrista, Minutanti, Coppieri, Camerieri Segreti, Scalco Segreto, Trinciante, Aiutante da Camera, Bussolanti, Floriere, Sottofloriere, Ceroferari, Sollecitatore del Sagro Palazzo, Sagrista, Accenditore delle candele, Custode delle Torce, Bidello della Rota, Baccalaro alla stalla, Palafrenieri, Bottigliere Segreto, Arazzieri e Cubiculari” – ma ’ndo vai? Ecco parole e mansioni dei piemontesi, e onestamente le prime come le seconde fanno noia solo a leggerle: “Usavano, quelli, infiorettare il discorso con un vocabolario da pratica d’ufficio, obliterare, paragrafare, omologare, collazionare, taciturnizzare, schedare, postergare, eccepire, emarginare, smarginare…”. E poi, “capoufficio, commendatore, cavaliere, ragioniere, caposezione, archivista, copista, impiegato di concetto, ufficiale di scrittura, usciere, avventizio” – mai a Roma si era sentito parlare così, precisa precisa “La famiglia De-Tappetti” immaginata da Gandolin.

E poi, appunto, i romani papalini, di mille mestieri – manco uno buono o comprensibile per i piemontesi col vermouthino in mano. “Il barrozzaro, il pecoraro, lo scrivano pubblico, il barbiere della meletta che ficcava dentro la bocca del cliente una mela limoncella così da eseguire una migliore rasatura delle guance; e, alla fine dell’operazione, gli vendeva la mela a vil prezzo”. Sennò, nella bocca del cliente successivo. E ancora, “l’acquacetosaro della taumaturgica Acqua Acetosa, er friggitore de pòrpi, er callalaro di paioli di rame, padelle e tegami, er carnacciaro de frattaije, er giuncataro cor pecorino primo sale, er tripparolo de trippa, pieduccio e tutt’er grugnaccio, er scarfaretto di pianelle e pantofole, er gallinacciaro...”. Ma che si raccontavano, questi qui, se s’incontravano con l’avventizio d’ufficio? Facevano certo prima a capirsi con Monsignor Governatore. Manco sui portici, ai torinesi cari e famigliari, a Roma erano d’accordo. S’informavano: “Vi stanziano le nevi? La pioggia vi è soverchia?”.

E il re, dite? Sua Maestà? Quello Roma se l’era presa, ma mica tanto lo sconfinferava, convinto che il Quirinale, palazzo dei Papi, portasse sicura sfiga al novello usurpatore. “In un mese, tre casi di morte inaspettate nelle famiglie del Quirinale. Sono casi che danno da pensare”. Venne in visita l’ultimo giorno dell’anno 1870, arrivò in piena notte quando er Tevere, inteso “er fiume bojaccia”, aveva allagato la città – cominciamo bene. Lo portarono, carrozzella carrozzella, a visitare la nuova capitale da ognuno dei sette colli. Salutò e ripartì. Quasi nessuno se ne accorse – non fosse per la lapide poi affissa, tutta in maiuscolo come s’usa, “PALESANDOSI DALLA SUA PRIMA VENUTA – ASSAI PIU’ CHE RE PADRE BENEFICò”. Essendo la prima, per quanto lo riguardava poteva anche restare l’ultima sua venuta. Spedì a Roma il principe ereditario Umberto, dedito a cacciare cinghiali a Castelporziano (una vocazione e una premonizione, e infatti finì con il suo Bava Beccaris che sparava alla gente) e volpi qua e là, e la principessa Margherita. Si provava a fare beneficenza ai bambini spazzacamini – la beneficenza pulciosa dei ricchi.

"Poveri bambini!", dicevamo tra di noi. Alcuni di voi, che l’anno scorso era allo stesso desco fraterno, ora non è più: è morto essiccato in una di quelle canne fumarie”. E Umberto – Re Buono, e viene da ridere – la beneficenza la faceva con i cinghiali che accoppava. In due giorni sessantanove ne fece fuori, ci vollero tre carri per riportarne i cadaveri al Quirinale, quindi li spedì in regalo ai ministri. “Ne ricavò una rabbia feroce Quintino Sella, vegetariano e maniaco dell’igiene, quando si vide recapitare a domicilio un enorme puzzolentissimo cinghiale”. Pure lo sport venne a mente, ai piemontesi sbarcati a Roma – ché a Roma, d’ogni sport, ognuno saggiamente se ne fregava. “Vita oziosa / è tedio e noia, / vita operosa / felicità, / issa, issa, issa là”, l’apposita canzoncina. C’era da che richiamare in servizio il Papa Re. Imperdibile il ministro della Pubblica Istruzione alle famiglie dei fanciulli – tutto un toccare e ritoccare per necessità e prudenza: “O genitori che amate i vostri figli, o genitori che avete la disgrazia di avere figliuoli rachitici, o scrofolosi, o tisicucci, se avete in casa qualche giovanotto tra i 15 e i 18 anni che vi cresce dinanzi agli occhi pallido ed allampanato come un asparago cresciuto in cantina: animo, mandatelo alle scuole di ginnastica, e lo salverete forse dal tarlo dell’adolescenza, forse anche gli salverete la vita!”.

Pochi mesi dopo, il 20 settembre, Pio IX compiva venticinque anni di pontificato. Il marchese Cavalletti aprì la sottoscrizione “per far dono al Papa d’un trono d’oro”. Ma s’erano fatti sparagnini pure i nobili, si vede – che stavano sulle spese per gli schioppi che garbavano a Sua Maestà, così “si raggiunse giusto giusto la somma per un trono di metallo dorato”. La gloria del mondo che transita. Intanto, in vista dell’imminente plebiscito, un’adunata di popolo fu convocata al Colosseo, causa comizio per l’elezione della Giunta Provvisoria. Strepitosi i resoconti: “‘Viva la Giunta’. ‘Ma se nun l’avémo ancora fatta…’. ‘Viva il Re’. ‘Silenzio, non è il momento…’. ‘A quell’omo, che nun posso dì viva er Re?’. ‘Lo poi dì, ma nun è er momento…’. ‘Eggià, nun è er momento adesso che er Re cià libberati’. ‘Silenzio, famo la Giunta’. ‘Se li famo uno per uno famo notte’”. Di tanto ardore e di tanti comizianti, fece preciso bilanco Neno er pollarolo, indiscusso testimone: “Spuntano fori a dozzine come le uova”. E alla fine al Quirinale, con gran sollievo degli stambecchi, e nonostante tutte le precauzioni, Vittorio Emanuele deve morire. Ventisei giorni dopo tocca ar Papa. Roma capitale è fatta.
 
* (Sappiamo che questo è solo il 141° anniversario di Porta Pia. Ci siamo solo mossi in anticipo per non farci fregare dagli imminenti volumi di Rizzo, Stella e Cazzullo).

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