Francesco Rutelli (foto LaPresse)

"Sì, le balle sui vaccini sono l'essenza della democrazia del clic"

David Allegranti

Grillismo, anti sovranismo, europeismo, modello Macron, fake news, destino del Pd. Intervista a Francesco Rutelli

Roma. Il fronte sovranista gode del suo quarto d’ora di celebrità. Vince negli Stati Uniti, vince in Gran Bretagna, in Francia lo capiremo domenica, mentre in Italia il partito unico di Salvini e Grillo prova a scommettere sulla sconfitta del progetto europeista, facendo leva – nel caso del M5s – sulla democrazia del clic, sull’emotività e sull’immediatezza. Domanda: come uscirne? Con l’Europa, dice Francesco Rutelli, che cita Ortega Y Gasset: “L’Europa è il solo continente che abbia un contenuto”.

 

Ma procediamo con ordine. Serve una (lunga) premessa per capire come siamo arrivati fin qui. “Il panorama del mercato politico – argomenta Rutelli – è irrimediabilmente cambiato; è stata superata quella fase in cui il mercato era protetto perché era assicurato da una parte dai sistemi ideologici e, dall’altra, dalla faglia della seconda parte del Novecento libertà/comunismo. Dopo la breve stagione della fine della storia, dell’affermazione della democrazia liberale e dell’economia di mercato che sembrava a sua volta irreversibile, abbiamo avuto un velocissimo ritorno alle sovranità; un rapido ritorno all’interesse nazionale, declinato soprattutto nei suoi canali politici, il cui vero sovrano è però la comunicazione immediata. Paradossalmente, i re della politica possono essere al massimo dei principi, perché il potere pubblico è impossibilitato a svolgere una regia che cambi il corso delle cose”.

 

Al massimo oggi il potere pubblico, spiega Rutelli, “può fingere di influenzare decisioni che però vanno oltre la propria portata: l’immediatezza è il re, con i suoi strumenti. Questo ha come effetto l’accorciamento dei cicli politici. Poiché la sfida politica non si regge sulla costruzione di un pensiero, su una struttura economica, su una classe dirigente in grado di reggere una generazione ma sulla velocità della comunicazione, sull’intrattenimento della politica e sulle emozioni legate a questi processi, anche il ciclo della politica è veloce. Da qui dunque si arriva o all’obsolescenza rapida della leadership politica o alla capacità di reinventarsi”. Non vale solo per i leader in quanto tali, ma anche per le forze politiche, in questo regno della comunicazione immediata, in cui la politica fa fatica ad assolvere al suo compito, che poi sarebbe la risoluzione dei problemi. “Ma per farlo serve un pensiero, la classe dirigente deve avere una sua traiettoria. Avere una politica efficiente significa organizzazione dello spazio pubblico in modo da consentire l’esercizio di una regia pubblica. Ovviamente, non dirigismo: l’orientamento dell’interesse pubblico avviene attraverso il mandato politico rappresentativo, elettivo”.

 

Tuttavia, il pensiero non c’è, la traiettoria della classe dirigente non si vede. Il discorso pubblico è largamente insufficiente. “Se andiamo a vedere l’oggetto dei dibattiti di oggi, mi ricorda quello che succedeva a Ferragosto quando io ero bambino. Quando non c’era nulla da scrivere, i giornali uscivano con i temi più bizzarri, dal ritorno dei Savoia al mostro di Lochness, alla riapertura delle case chiuse. Oggi questa dinamica avviene per 365 giorni l’anno. Se leggiamo i titoli principali della cronaca e della politica, su tutti i media, degli ultimi 18 mesi, ci rendiamo conto di quanti sono i temi che spariscono e si inabissano”. La politica non fa altro che adeguarsi, “si illude di guidare i processi, fa surfing nel regno della comunicazione e dei suoi temi. Prendiamo i vaccini o le fake news. Dimentichiamo che la storia stessa è il massimo prodotto dell’elaborazione della manipolazione umana; è fatta dai vincitori, quindi chi vince modifica i fatti per servire la propria causa e per illustrare il proprio successo politico. La storia è dannazione della memoria dello sconfitto, è costruzione di una narrazione sul vincitore. Così è sempre stato”. 

 

“Oggi ci sbalordiamo – prosegue Rutelli – per le fake news, ma perché? Se le news si basano sull’immediatezza, sull’emotività, sulla leggerezza culturale e strategica, la manipolazione delle notizie è uno strumento per la conquista e poi per la conservazione del potere. Dunque non scopriamo niente, è acqua calda”. Insomma se da una parte c’è l’immediatezza, “dall’altra c’è l’effimera gestione dell’immediatezza. E’ un fatto: la politica non ha più la capacità nobile della storia, non è in grado di esercitare un’etica della responsabilità, per dirla con Max Weber, a partire da un’etica della convinzione. Gli strumenti sono altrove e non può che affidarsi a volteggiare sull’attualità e sui sentimenti”. Da qui arriva il paradosso del sovranismo in un mondo in cui le singole sovranità contano sempre meno. “Le nostre nazioni stanno diventando trascurabili rispetto alle grandi questioni del mondo, la globalizzazione della finanza, della tecnologia, dell’economia, ai mutamenti della demografia che rendono i flussi migratori sempre più centrali, eppure noi ci vogliamo riconoscere in questa dimensione sempre più piccola, che è l’unica che ci sembra di poter afferrare. La cosa apprezzabile della linea Macron è che Macron è stato l’unico uomo politico apertamente europeista in una campagna elettorale. In una battaglia così difficile non ha avuto cedimenti rispetto al facile blame game contro l’Ue, ‘madre di tutte le sciagure’. Renzi lo ha fatto in maniera intermittente. In alcuni momenti ha voluto indulgere al meccanismo di blame game”. Il problema oggi è che la politica non conta più nulla, “non c’è più mediazione politica, non c’è un livello di rappresentanza elettiva qualificata legata al territorio. I clic ci sono e sono destinati a restare”.

 

La risposta più comoda, più facile, sarebbe quella di rinchiudersi nel nazionalismo, nei propri confini. Una malattia che sta colpendo tutti, come dimostra l’elezione di Trump, e che rischia di espandersi. “Chi è stato l’interprete della denazionalizzazione della politica? Gli Stati Uniti di impronta democratica, da Bill Clinton negli anni Novanta alla sconfitta di Hillary Clinton oggi, che hanno esercitato self-restraint e soft power, quest’ultimo scoperto positivamente dalla Cina. Da oggi gli americani tornano a dire ‘prima veniamo noi’ e questo porterà delle conseguenze che renderanno più trascurabile l’Europa divisa in 27 nazioni. E l’alternativa all’Europa è proprio questo sovranismo dichiarato, proclamato, ma non reale. Nella prospettiva italiana, direi che la destra ha un’incollatura di vantaggio rispetto a Grillo alle prossime elezioni politiche”.

 

L’irresistibile richiamo sovranista

L’irresistibile richiamo sovranista trova terreno fertile. “Chi ha una visione dello spazio pubblico come regia pubblica non può non prescindere dal fatto che oggi serve un pensiero contemporaneo. Amo citare molto il grande Ortega Y Gasset: ‘L’Europa è il solo continente che abbia un contenuto’. Ma mi piace anche citare il Paul Valéry degli anni Trenta: ‘L’Europa non ha avuto la politica all’altezza del proprio pensiero’. A distanza di 80 anni dalla frase di Valéry, oggi non abbiamo un pensiero europeo, non abbiamo obiettivi europei, non abbiamo una efficacia europea. Non abbiamo neanche una identità legata a un ruolo nel mondo”. I sovranisti invece quantomeno un’identità ce l’hanno. Prendete l’America, dice Rutelli: lì stiamo assistendo a una controrivoluzione. “Trump guida una rivoluzione antisistema che è speculare a quella del ’68, quando nacque contro la borghesia l’aspettativa di una società cosmopolita che avesse una visione collettiva. In casa nostra, l’Europa è la risposta, ma l’unica possibilità è che dopo la Brexit questa controrivoluzione non vinca in Francia, e lo sapremo domenica, e in Italia. In Germania non vince perché i tedeschi, prima di essere democristiani o socialdemocratici, sono tedeschi. Hanno un senso della nazione”. In Italia invece “siamo alla desertificazione della politica, alla fuga dalla politica. Dobbiamo porci molto presto il problema di capire come si sfugga a questo destino di particolarismo e di emotività immediata, senza illudersi che il volteggiare degli uccellini twittanti sia sufficiente. Dobbiamo trovare un codice, una sintesi dell’interesse italiano, che faccia parte dell’essere europei. Altrimenti nelle nostre società lo sbocco presumibile dei populismi, se vogliamo chiamarli così, sono gli autoritarismi, piuttosto che i grillismi”. Naturalmente, la classe dirigente ha le sue responsabilità. “Da un buon numero di anni la classe politica è selected ma non elected, i cittadini hanno meno fiducia; si chiedono che rapporto possono avere con mille parlamentari che non conoscono e che vedono solo in tv. I grillini hanno gioco facile, con la loro confusione evidentemente ispirata dalla verve comica di Grillo, che ha un indubbio fiuto. Già per conto della Dc era servito a picconare Craxi con efficacia. Oggi interpreta la frontiera estrema dell’anticasta”. Viaggia insomma su un’autostrada, e in discesa. “Ma siamo sicuri che l’ultima parola non rimarrà alle destre?”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.