
David Cox – Rhyl Sands, c 1854
Scrittori al mare, quelli veri
Quando la prosa annega tra cliché e bagnasciuga. Con "Lo scroccone" Jules Renard svela riflessi pavloviani, citazioni riciclate e il lato cinico della mediocrità letteraria. Tutto già letto, tutto già detto. Un classico spietato sul vuoto delle parole
Scrittori al mare. Abbandonate i paraculi, quelli che tornano al paesello, scrutano nel passato, “attingono ai luoghi del cuore” vagolando tra ricordi e bagnasciuga, parlano con le maree e vi rovesciano addosso una betoniera di glassa autoconfessionale. E godetevi semmai un capitolo triple sec, che non si dimentica.
Lui si chiama Henri. Il suo mestiere è fare lo scrittore che non scriverà mai. Essendo un profittatore, si attacca ai Vernet, una coppia di creduloni naïf che posano a intellettuali, illusi come tacchini di volare altissimo. Henri parla come i Vernet si aspettano che debba parlare un intellettuale e lui regala loro l’illusione di esserlo, offrendo poltiglie già masticate, giudizi involgariti il giusto, poeticherie di astuto riuso. Fa, insomma, il pappagallo probabilistico – altra definizione di intelligenza artificiale. E se li mangia vestiti e calzati.
“Le nostre conversazioni si ripetono, sempre le stesse. Gli appunti che ripasso ogni due giorni mi sono utilissimi: condensano quello che un giovanotto deve sapere per apparire superiore. Ora è un brano dell’Intelligenza di Taine volgarizzato a uso delle persone di mondo; ora è un’ironia di Renan, ispessita e adattata alle idee dell’uomo medio”.
Il romanzo in questione è “Lo scroccone” di Jules Renard, quello di “Pel di carota”, certo, ma soprattutto del “Journal”, opera postuma pubblicata cent’anni fa e lettura da consigliare a chiunque abbia in sprezzo chi pensa e scrive come Gemini. Tutto molto crudele, a tratti perfino cruento – alla fine siamo tutti un po’ Vernet e un po’ Henri, presidiando i capi opposti della stessa mediocrità (una è più cinica, l’altra è solo più pigra). Ma il romanzo tocca l’apice quando i Vernet invitano Henri a una piccola vacanza marittima. Lui acconsente e si prepara. “Presi con me le due autorità sull’argomento: ‘Il Mare’ di Michelet e ‘Il Mare’ di Richepin. Dando dei colpetti sul taglio dei libri per far volar via la polvere, mi dissi: ‘Con questi, non c’è niente che possa temere’. Aggiunsi ai due libri ‘I contadini’ di Balzac, nel caso fossi costretto a fare qualche escursione in campagna, a conversare con un curato e ad ammirare la natura”.
Ci arrivano in treno. Durante il viaggio gli occhi della signora Vernet si inumidiscono. “Il mare!” Henri accompagna l’azzurra visione con un paio di bieche trovate e la signora Vernet si scioglie pianto. Henri pensa: “E già ho timore del mare, della meraviglia che ha causato i massimi deliri. Il mare è pronto ad abbruttirmi dolcemente”.
Il mare lo mette in grande imbarazzo, gli vengono in mente solo banalità. Suda freddo e si sente ostaggio di riflessi pavloviani. Il pappagallo probabilistico gracida e starnazza dentro di lui ed Henri ripete, ripete, pappagallo a sua volta.
“Gli scogli sono divinità marine, sono titani folgorati: perfetto! L’onda e la pietra lottano, si avvinghiano e tuonano – benissimo! Ma è roba che ho letto dappertutto, e io voglio una sensazione mia, personale. Il Vasto Oceano mi fa disperare perché non posso offrirgli un’immagine che sia farina del mio sacco. Sarebbe meglio leggere una pagina di Pierre Loti”. Tutto è stato detto, tutto pensato sempre nel solito modo – gli scogli, la schiuma, l’azzurro. “Respingo queste associazioni d’idee così comuni che rimbalzano come palle di biliardo”. Una paccottiglia di similitudini che ostacolano lo sguardo.
Scrittori al mare: quanta prosa di cosiddetto alto livello non sa restare un solo istante al livello del mare?