Sally Rooney (Foto Google Creative Commons)

Una Fogliata di libri

Invischiati nell'inevitabile miopia dei coevi. “Intermezzo”, corpo a corpo con Sally Rooney

Marco Archetti

Riguardo al successo mondiale dell'ultimo libro della scrittrice irlandese si può dire solo una cosa: è inspiegabile come tutti i successi letterari. Non resta che accettare la realtà e smettere di arrovellarsi

E dunque eccoci alle prese con “Intermezzo”, corpo a corpo con Sally Rooney scavalcando le tre opere precedenti e le polemiche, le scuole di pensiero manichee, le morbose curiosità, i fan, il merchandising, i didascalismi, la scrittura “al femminile”, insomma, tutto l’armamentario, e prendendosi subito il disturbo di dire una cosa circa la questione delle questioni, sterilissima va da sé, nella proiezione della quale, però, rimbomba e si polarizza quasi tutto il chiacchierodromo intorno a questa scrittrice: il successo mondiale. Un successo di queste proporzioni – lo possiamo dire, tra adulti – non è mai “meritato”, e non lo è nemmeno se avesse arriso a Philip Roth o a qualche altro esponente aureo della nostra Sala reale, come la chiamava Flaubert riferendosi ai Venerati Maestri, ragion per cui è inutile arrovellarsi e futile schierarsi ed è molto meglio accettare la realtà, ossia di essere invischiati nell’inevitabile miopia dei coevi e pensare al fatto che Dostoevskij morì povero. Il successo, anche quello letterario, è imprevedibile e inspiegabile, e questa è l’unica cosa che se ne può dire. 

 

La storia di “Intermezzo”: due fratelli, Peter e Ivan. Il primo avvocato trentenne impasticcato (raccontato con ritmo sincopato e frasi per lo più nominali: le parti migliori), il secondo scacchista ventenne di talento ma non di genio come aveva creduto (raccontato con ritmo lento e più disteso: a volte noioso). Muore il padre e da quel momento si apre una parentesi graffa della loro vita, i due faticano a trovare centri di gravità permanente anche nel rapporto tra di loro, e gli altri sfuggono (gli altri tutti: donne, fidanzate, amiche, amori della vita, compagni di scacchi) e niente trova parole, o meglio, se ne trovano molte ma sempre a salve, mai quelle giuste, mai quelle che quadrano e fanno quadrare, che quietano il caos, che lo addomesticano in una formula accettabile a partire dalla quale immaginare la vita e il resto. Perché sì, se c’è una cosa evidente che fanno i personaggi di Sally Rooney è proprio straparlare, strapensare, stracongetturare, insomma, si prendono l’ombelico, lo mettono su un piatto e ci ragionano su. E lei notifica ogni volta che inghiottono – letteralmente – e ci rende conto di ogni sguardo, pensiero e retropensiero al punto da ingoiarsi completamente il sottotesto, aspetto che il lettore più novecentesco farà fatica ad accettare.

 

I personaggi di Rooney sono tutto testo, tutto è detto e esplicitato e chi parla lo fa con istinti contrari a quelli che ci muovono nella cosiddetta realtà, cioè lo fa per chiarire, per chiarirsi, mai per confondere, alzare cortine fumogene, darla a bere, tirar via. I dialoghi di Rooney possono suonare come didascalie che spiegano i personaggi e, in una certa misura, li giustificano. I loro disagi sono sempre fotogenici e nessuno di loro viene mai messo davvero dalla parte del torto. Quanto al lutto: non sentiamo granché la presenza devastante dell’assente. Detto ciò, forza narrativa indubbia e invidiabile capacità di farsi seguire e di richiamarci al fatto che le letteratura è, da sempre, operazione di profondità da plasmare secondo forme che accettino l’esperienza di superficie che è ogni lettura.

 

(Post scriptum: queste righe non vanno ascritte ad alcuno schieramento, la lettura è volata ed è sempre stata accompagnata da un verso:  “Another time / has other lives to live”. Parola di W.H. Auden. E chi siamo noi, eccetera.)

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