Giuseppe Pontiggia (ansa) 

Una fogliata di libri

Leggere Pontiggia è un vero balsamo

 Marco Archetti

Era il 1992 e in "Le sabbie immobili" l'autore come in un block notes raccoglieva i suoi pensieri scettici e vigili, lasciandosi andare a un esercizio di intelligenza involontaria 

Poche letture balsamiche come “Le sabbie immobili”, un Giuseppe Pontiggia di trent’anni fa, cahier de vengeance contro tutta la banalità, anzi, contro tutta la banalité colta e superciliosa, che più supericiliosa è e più comica risulta. Per lo meno adottando il criterio pontiggiano, secondo cui la cosa più ridicola è l’identificazione col proprio ruolo – “il colonnello che dorme in divisa”, come disse anche Eugène Ionesco in una chiacchierata del 1966 con Claude Bonnefoy.


“Paradiso del comico è un mondo in cui gli uomini si identificano con i ruoli”, scrive Pontiggia riecheggiando inconsapevolmente, ma chissà, l’uomo che inventò rinoceronti e cantatrici calve (il quale, a sua volta, chissà cosa direbbe oggi di un mondo in cui gli uomini si identificano con le etichette che si affannano ad attribuire a sé stessi, sfregiando una lingua da cui si sentono mirati in quanto vittime).


“Una giuria ripresa frontalmente” è anch’essa espressione del comico, suggerisce Pontiggia nel capitoletto “Ridere per non piangere”. Ma ecco che cominciano a fischiare i proiettili. Il comico? “Gli scrittori televisivi che, da quando si è scoperta la donna come lettrice forte, si atteggiano a emotivi, passionali, impetuosi, alieni da calcoli anche quando scrivono (e ce ne accorgiamo)” – la parentesi è dello scrittore. Che, non pago, continua. “Il terrore della pagina bianca, sì. Ma di quella scritta?”. E infine rincara: “Come diceva quella ragazza, sgomenta, al suo ragazzo: perché non sei anticonformista anche tu come tutti gli altri?”.


Un esercizio di intelligenza involontaria, questo block notes del 1992, perché Pontiggia era così, intelligente e acuto suo malgrado, quasi a dispetto di sé stesso, lontanissimo dagli scrittori che “si sentono delegati a pensare” e sensibilissimo invece alla seduzione della rinuncia, con quei suoi pensieri così scettici e vigili, curvilinei e a tratti nevrili, ma subito smentiti da un tono in cui, sempre, si affaccia la tentazione di eluderli, di evitarli, quella vena di ritrosia, quella voglia di rimangiarsi tutto perché, insomma, dai, la si dà sempre un po’ a bere, quel continuo conato pontiggiano a non conare, il sospetto che si dovrebbe tacere e non dire, e men che meno scrivere, e che, se si scrive, o si scrive come se non si scrivesse, sennò addio, è subito gorgheggio, subito truppa cammellata, entrino i tenori!


E proprio le parole sono spunti per alcuni dei pensieri contenuti in questo libro. “Fiera è una di quelle parole che danno euforia effimera e stanchezza durevole.” Oppure: “Problema: parola usata per dire che non c’è. Variante euforica: no problem”. Squisito anche: “Inter nos: inter omnes”. Strali su “mutamento epocale”, cioè “uno al giorno” e divertentissimo il capitolo “Neologismi euforici”, in cui si ragiona su molti termini come “Target”: “Significava, all’origine, bersaglio”, ricorda Pontiggia. “Ma chi lo cita prova il brivido euforico di averlo già colpito”. Il piccolo dizionario prosegue con “cane sciolto”, ossia “in politica, di chi passa da un partito all’altro. Contrario di cane legato”. Incontestabile anche il fatto che “lo scrittore postumo pubblica molto di più di quando era in vita” e utile affidarsi alla seguente istruzione per l’uso: “Fidati del risvolto di copertina. Quanti sono i libri che non ho preso dopo averlo letto”. 


Memorabili certi antidetti come: nuotare nella povertà, a mali estremi piccoli rimedi, il dolce far tutto, ad amico che fugge ponti d’oro.
 

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