Cose che non voglio sapere

Raffaella Silvestri

La recensione del libro di Deborah Levy, NN Editore, 120 pp., 15 euro

Durante un periodo della sua vita in cui si trova a piangere regolarmente sulle scale mobili – uno degli incipit più belli che capiterà di leggere quest’anno – una scrittrice progetta una fuga a Maiorca, nella pensione in cui, molti anni prima, ha scritto uno dei suoi libri. Sull’isola sta per arrivare una bufera di neve, quando in un ristorante col camino lei comincia a raccontare la storia della sua vita al negoziante cinese del villaggio, che vende tavolette di cioccolato 99 per cento intensidad ma di cui non conosce il nome. Racconta dell’infanzia in Sudafrica, dove il padre, attivista anti apartheid, viene imprigionato per anni, e l’adolescenza in Inghilterra, che per lei è l’esilio. Non vuole tornare in Sudafrica, al contrario vorrebbe essere più lì, “inglese dalla testa ai piedi”, tanto che le sue prime parole, presa la decisione di diventare scrittrice a quindici anni, scritte su un tovagliolo, sono: “Inghilterra, Inghilterra, Inghilterra”. Nel bar in cui le scrive, la cuoca Angie non cuoce bene il bacon, ma “non me la sentivo di chiedere a Angie di cuocere il bacon un po’ di più, perché non vivevo in Inghilterra, vivevo in Esilio, e immaginavo che si facesse così nel paese che mi ospitava”. E’ il primo volume (uscito nel 2013) dell’autobiografia in movimento di Deborah Levy, che ricorda la trilogia di Rachel Cusk nella cornice, ma si sviluppa come un’autobiografia dalla voce più calda, in cui si affacciano i luoghi del presente. A guidare la narrazione è la domanda: “Cosa fare di tutte le cose che sappiamo e con cui non sopportiamo di convivere? Cosa facciamo con tutte le cose che non vogliamo sapere?”. E cioè: quanto la consapevolezza di sé è funzionale alla scrittura, e quanto invece è nociva? Una domanda che Levy si fa in quanto donna e scrittrice e che riprende il discorso di Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé. “Una scrittrice non può percepire in modo troppo chiaro la propria vita. Se lo fa, scriverà con rabbia quando dovrebbe scrivere con calma”, parafrasa Levy. Per Woolf, la scoperta dell’ingiustizia della propria condizione (e cioè, la scoperta di sé come donna) è uno dei grandi ostacoli alla scrittura. “Scriverà di sé quando dovrebbe scrivere dei suoi personaggi. E’ in guerra con il proprio destino”. Ma Levy, che ha molto ragionato sulla propria scrittura e che ha raggiunto il successo di pubblico a più di vent’anni dal primo libro (con A nuoto verso casa, Garzanti) sa che poiché tutte noi siamo in guerra col nostro destino, tanto vale affrontarlo, partendo dal passato. 
  

Cose che non voglio sapere
Deborah Levy, 
NN Editore, 120 pp., 15 euro

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