Paolo Volponi è stato scrittore, poeta e senatore della Repubblica. Entrò all’Olivetti nel 1956 (grafica di Enrico Cicchetti) 

Una fogliata di libri

Paolo Volponi, il funzionario scrittore che possedeva un unico linguaggio

 Matteo Marchesini

Raggiunse le massime cariche dirigenziali; e pur tra scontri e dimissioni, conobbe molte altre stanze del potere, dalla Fiat alla Rai fino al Parlamento. Un autore a suo modo eccezionale, nella cui opera  si mischiano una sorta di satura allucinazione, una retorica da scienziato e tratti poetici

Nel secondo Dopoguerra, Adriano Olivetti offrì alla cultura italiana un’idea, una pratica e un sogno: suggerì cioè che fosse possibile innestare l’industrializzazione e il progresso tecnologico sul terreno di una comunità compatta e organica, in una città umanistica in grado di mantenere i secolari caratteri nazionali (stravolti invece quasi dappertutto con il boom). Tre degli intellettuali che arruolò nella sua impresa, quest’anno compirebbero un secolo: Ottiero Ottieri, Giovanni Giudici e Paolo Volponi. Ma solo Volponi raggiunse le massime cariche dirigenziali; e pur tra scontri e dimissioni, conobbe molte altre stanze del potere (Fiat, Rai, Parlamento). Il caso è eccezionale, per uno scrittore di prima grandezza, e ancor più per un uomo che nelle occasioni letterarie come in quelle politico-economiche sembra possedere un unico linguaggio: un linguaggio in cui, come già in Rebora, una sorta di satura allucinazione percettiva si mischia a una retorica da funzionario o da scienziato e a una poesia materica, farraginosa, non poi così distante dalle elucubrazioni parodicamente leonardesche e vichiane di certi suoi personaggi intenti a elaborare programmi del tutto sproporzionati al contesto.

Gli alter ego di Volponi sono dei donchisciotti paranoici, che in qualunque evento, volto o linea del paesaggio scorgono presagi e tradimenti, e per entrare in contatto con una realtà in continua metamorfosi possono solo offendere e lasciarsi offendere. Dopo i versi giovanili, che su un fondo quasimodiano trapiantano il poemetto da “Officina”, tra il ’62 e il ’74 Volponi pubblica una triade dialettica di romanzi che hanno la densità figurale della poesia: “Memoriale”, “La macchina mondiale” e la sintesi di “Corporale”, esperimento fallito e grandioso, proposto col coraggio raro di chi non può contare su nessun pubblico sicuro (né quello della coeva “Storia” di Elsa Morante, né quello della neoavanguardia). In “Memoriale”, l’operaio Saluggia cerca invano di recuperare la salute attraverso la fabbrica, che nella prima parte del suo lento delirio vede come un corpo mistico, e che poi si trasforma in un Male incompatibile col bianco panorama del lago di Candia.

Nella “Macchina mondiale”, l’anarchico Crocioni prova ugualmente invano a riattingere un’integrità da uomo rinascimentale, rifiutando ogni specializzazione alienante. In “Corporale”, infine, troviamo un intellettuale socialmente riconosciuto, ma che da una società ormai irriformabile fugge nei gesti primitivi del mangiare, copulare, defecare, fare a botte. Ora la compenetrazione tra fantasie, atti e oggetti tocca il culmine, mentre l’impeto progettuale e la tendenza regressiva tra i quali è scisso l’io volponiano si confondono nel suo tentativo di costruire un rifugio antiatomico sui colli di Urbino. Dopo “Corporale”, la narrativa di Volponi si divarica in due rami (l’elegia sulla provincia, la parabola apocalittica) fino al nuovo bilancio complessivo di “Le mosche del capitale”. Qui sparisce il testimone paranoico. Il mondo è un’entropica galassia contagiata dal capitalismo finanziario, nella cui fauna di capi, satrapi e servi il massimo della gerarchia equivale al suo annullamento: e in una specie di mostruosa operetta leopardiana, prendono la parola anche le agende o i ficus aziendali. Come negli esordi lirici, anche in questa tarda scrittura antigerarchica e lunare Volponi somiglia a Roversi. Entrambi gli autori si aprono a tutte le provocazioni dell’attualità fino al collasso della forma; entrambi, simili ai vociani, fondono furiosamente poesia e prosa, autobiografia e morale; ed entrambi descrivono con soavità sarcastica la ferocia del potere. Ma se in Roversi spicca una testarda speranza, all’intera opera di Volponi potrebbe far da epigrafe l’ultima frase del suo primo romanzo: “A quel punto ho capito che nessuno può arrivare in mio aiuto”.
 

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