Una fogliata di libri

La nostra insipienza stanata dal Nobel a un drammaturgo

Marco Archetti

È indubbio che il modo peggiore di fruire del teatro sia leggerne il solo testo, anzi, spesso i migliori testi teatrali non “rispondono” alla lettura come fa un romanzo, tuttavia, pur consci della rilevanza dell’arto mancante, è difficile sostenere che “Morte di un commesso viaggiatore” o “Strano interludio” non appartengano alla letteratura

Siamo tutti d’accordo che un premio Nobel per la Letteratura non si augura a nessuno, a meno di non volergli male. Ardiamo ancora d’imbarazzo per qualche premio italiano che, incassato il meritato milioncino, si è già buttato a combattere il capitalismo a mani nude: condizioni contrattuali che non conosciamo?

D’accordo anche sul fatto che il TotoNobel che infiamma X (fu Twitter) è interessante come guardare la vernice che asciuga, seppur nel frattempo siamo diventati tutti guardatori di vernice, di pesche e di desinenze non asteriscate.

Il punto più interessante è che mai si registra un implicito e unanime risentimento come quando a vincerlo è un drammaturgo. Se lo vince uno scrittore conosciuto a malapena dal parentado – siamo disposti a tollerare perfino un poeta – ci rilassiamo tutti e via col rituale: sui social si scatenano le ironie circa il gradiente-Carneade del personaggio paragonato ai precedenti (ricordate con Tomas Tranströmer?); poi si registra il tripudio dello sparuto mazzetto di conoscitori che vede finalmente riconosciuti i propri sabato sera blindati in casa; infine fanno capolino i nostri adorabili flemmatici, quelli del “prima conoscere, poi criticare”, ma da quel momento li si perde di vista. Dove se ne vanno? Sul divano a dedicare i successivi dodici mesi, sorseggiando tisane, allo studio dello Sconosciuto Laureato? Attendiamo biblioselfie su Ig e anche saggi critici.

Drammaturgo o scrittore, sempre divertenti le sintesi delle motivazioni: quando nel 2005 toccò ad Harold Pinter, si diceva che nelle sue commedie scoperchiava “il baratro sotto le chiacchiere oziose di tutti i giorni e si spingeva a entrare nelle stanze chiuse dell'oppressione” – e siamo d’accordo anche sul fatto che abbiamo tutti, da qualche parte, un amico abile di chiacchiera che quando non ha aperto un romanzo e non vuole ammetterlo se la cava più o meno così. Molto trallallà anche nella motivazione per il Nobel a José Saramago o in quella per Dario Fo che, lo sanno tutti, “dileggia il potere”. Insomma, basta frugare e dal trovarobato saltano fuori “gli scenari poetici”, “le parabole dell’immaginazione”, “il valore universale”, “le innumerevoli maschere”.

A Gao Xingijan perdonammo il Nobel perché era anche uno scrittore, ma le perplessità affiorano sempre – chissà se fu così anche con Pirandello, O’Neill o Shaw – ogni volta che un drammaturgo osa “rubare” il premio a uno scrittore. Perché è questo che sentiamo: il fatto che gli spetti meno. Ma come mai? E’ indubbio che il modo peggiore di fruire del teatro sia leggerne il solo testo, anzi, spesso i migliori testi teatrali non “rispondono” alla lettura come fa un romanzo, tuttavia, pur consci della rilevanza dell’arto mancante, è difficile sostenere che “Morte di un commesso viaggiatore” o “Strano interludio” non appartengano alla letteratura. Il fatto è che ogni premio dato a un drammaturgo stana la nostra insipienza: chi conosce davvero il teatro contemporaneo? Chi lo va a vedere? Ben venga, quindi, il premio a un drammaturgo!

Non fosse che il medesimo drammaturgo – Jon Fosse – pare abbia dichiarato di non condividere il Nobel a Fo e a Dylan, tirando in ballo la figura del “letterato puro”.
Poi leggi il New York Times: “Fosse è uno di quegli scrittori che ti senti in colpa per non aver ancora letto”.

E’ il momento in cui ti rendi conto di una cosa: Tomas Tranströmer è ancora là che ti aspetta.

(Intanto, su ebay, autografo di Jon Fosse a 200 euro).

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