Elaborazione grafica Enrico Cicchetti 

una fogliata di libri

Cristina Campo, quando l'arte non è mai al servizio del successo

Edoardo Rialti

Nel centenario della nascita, chi la ammira ne cita con fervore feticistico versi, aforismi, azioni private, battute, tanto più preziosi perché carpiti o elargiti da chi esercitava un controllo così rigoroso su quanto lasciare trapelare di sé. Una raccolta di saggi (Mimesis)

Stile è passione isolatrice, dichiarò D’Annunzio. Si coagula in gesti e parole, nella fiducia difficile in una vastità che ci supera, non vincolata o ricattata da esiti e riconoscimenti o da ciò che sappiamo comunicare di essa. Lo sapevano i padri del deserto che condividevano le ombre di rocce e alberi coi draghi come coinquilini, lo sapeva Maometto che faceva conficcare frasche sulle tombe dei rei perché avessero un qualche ristoro. Cristina Campo amava episodi simili a questi, li citava senza soluzione di continuità assieme ai versi di poeti, proverbi contadini o le linee delle case toscane in paesaggi che sono ancora quelli di Masaccio. Poesia è gesto e il gesto può farsi poesia. Chi ammira Cristina Campo ne cita a sua volta con fervore feticistico versi, aforismi, azioni private, battute, tanto più preziosi perché carpiti o elargiti da chi esercitava un controllo così rigoroso su quanto lasciare trapelare di sé. “Non dire mai il tuo vero nome, la tua data di nascita e non dare mai una tua fotografia”.

 

Nel centenario della nascita numerosi sono stati gli omaggi, le letture pubbliche e gli studi per quella che molti, come Mario Luzi che la adombrò nella sua “Ipazia”, considerano una maestra iniziatica, la voce di un altro mondo in questo, che nella sua alterità, riserbo e persino nell’occultamento continua però a costituire una riserva di senso e graziosa incuranza di sé, proprio perché contrasta e ignora tutta la colossale macchina di auto narrazione consumistica cui spesso si è voluta ridurre la vita dell’artista: “Ti ho già detto molte volte, credo, che la letteratura (parola orrenda) non è un fine, per me, non uno scopo, ma un mezzo, uno dei modi (infiniti) di vivere con libertà e solitudine”. Quanto lei stessa ha scritto ed espresso è invece un distillato, “avvolto in metrica, avvinto in disciplina” scriveva Marianne Moore, un segreto confidato a bassa voce che pure continua ad echeggiare.

 

La raccolta di saggi “Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile” (Mimesis, a cura di Chiara Zamboni) prova seguire le diverse tracce nel giardino segreto del suo spirito e del suo sguardo, dalla via negativa della teologia e della fiaba, al rapporto con pensatrici e poetesse vicine e lontane come Simone Weil o Gaspara Stampa, la cui lirica rinascimentale era per lei, al pari dell’amore deluso di Swann, il rovescio tragico dell’arazzo della Vita Nova.

 

Per scrivere di lei ci vorrebbe una prosa come la sua, che cammina passo passo nelle stesse regioni ove s’avventura la lirica. Cosa citare, cosa non citare? Dall’epistolario, opera a sé, come quello di Tasso o Leopardi, alla concentrazione limpida e al tempo stesso gremita di storia e destino universale dei versi – “Moriremo lontani… perché dove tu passi è Samarcanda”. Leggerla è sempre un respiro, non semplicemente un fuoco che pure dal vento si alimenta, perché vi si incontra costante una prospettiva ribaltata rispetto alla riduzione di ogni testo a pretesto di tanta comunicazione culturale contemporanea, il culto commerciale dell’ego e dello slogan. L’arte non è mai al servizio del successo, del riconoscimento e neppure della propaganda delle proprie pretese buone intenzioni, ma solo del possesso e della conoscenza di sé. “Quando tu preghi, entra nella tua camera , chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”, amava citare. Quanto leggiamo è il poco che è sfuggito volente o nolente da tale costante conversazione segreta.

 

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