Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti 

Il “vaso di opinioni senza opinione” del sempre attuale Renzo Paris

Matteo Marchesini

È in libreria, edito da elliot, “Poesie 1968-2022”

A vent’anni, i poeti italiani della generazione del ’68 si sono dibattuti tra il rifiuto della letteratura, in nome della teoria o della prassi politica, e il suo recupero in chiave di confessione al tempo stesso culturalista e neonaif. Passato l’anno fatale coi suoi strascichi, hanno avvertito a volte un famelico “bisogno di poesia” – ma di una poesia che dopo la morte novecentesca sembrava poter rinascere in qualunque forma, o meglio senza forma: la sua irrilevanza stimolava infatti gli arbitri di una scrittura destinata a restare tanto più privata quanto più insisteva sulla dimensione pubblica e magari performativa.

  

Di questo bisogno parla il testo che Renzo Paris ha scelto per la quarta di copertina delle sue “Poesie 1968-2022” edite da elliot. Scandiscono le sezioni del volume alcune prose memoriali in cui è incorporata un’antologia della critica, la quale fin da subito non ha saputo bene quanta responsabilità attribuire a una lirica che appena cerchi di stringerla in pugno ti dà l’impressione di stringere il vuoto, ma che appena il pugno lo riapri torna a disegnarsi intatta nell’aria.

 

All’inizio troviamo dei dialoghi ideologici in poltiglia, che si allineano senza soluzione di continuità ai bisticci erotici di uomini e donne pronti a scambiarsi le parti. “La rivoluzione è lunga e la vita è breve”, chiosa qui il poeta con un felice aforisma autoumoristico. Più avanti Paris fa il verso ai latini, che gli servono per dare o togliere peso a certe verità spudorate, e per imprimere a certe righe prosastiche la perentorietà di una strofa tradotta da una lingua classica. Ma la sua lirica mantiene ovunque l’aspetto fluttuante delle prime stesure: oscilla senza scegliere tra gli accenti teneri e beffardi, alla punteggiatura sostituisce le pause del respiro, e crea intermittenti effetti visivi. Siamo in zona Apollinaire, in un clima di surrealismo allo stato nascente o morente ma comunque non ideologico. E Apollinaire significa anche la Roma che tutto amalgama e abbandona a un’eterna provvisorietà – la città dove la Storia monumentale sembra poter essere generata dal saluto distratto che ci si scambia a cena. Ogni cosa in Paris diventa diario volubile, appunto d’occasione, e viene ridotta a una misura di convivio romano-abruzzese: i putsch, le religioni, i popoli esotici… L’autore salta di palo in frasca, non gerarchizza temi né toni. E’ un “vaso di opinioni / senza opinione”.

 

Che si tratti di un pettegolezzo da alcova o di un solenne passo dannunziano, ospita le parole orecchiate sottraendo loro la forza di gravità: il che permette di accettare anche certe mitologie che suonerebbero puerili, se non sfumassero subito con grazia. Ecco allora dove sta il piccolo miracolo di Paris: ciò che, lì per lì, può apparire in lui solo un effimero cedimento alla cronaca, dopo decenni resiste nelle sue pagine proprio grazie a quel cedimento, cioè alla scelta di registrare le chiacchiere di stagione arrendendosi alla loro fatuità, non cercando di trasformarle in altro di più strutturato.

 

Si potrà dunque dire di questo poeta che è “leggero”, nel senso in cui in tempi di maschilismo sicuro di sé lo si diceva di una ragazza? Insomma: scherza, non scherza? O come direbbe qualcuno: ci fa o ci è? Di sicuro non somiglia né al palazzeschiano a priori Bordini, né al sentimentale a priori Damiani; e i suoi versi sopravvivono anche grazie al loro statuto indecidibile, che non consente di leggerli né con né senza virgolette. Tuttavia, per non dissolversi nell’aria, perfino questa lirica deve ancorarsi a due o tre leitmotiv: ad esempio all’immagine della “bambola nera”, figura delle origini contadine, della gioventù “beat” e poi di una provincia “neoetnica”, distrutta; ma anche figura di un eros che come nel suo Catullo, nel suo Apo e nel suo Moravia, in Paris muore ogni giorno per non morire mai.
 

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