Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti 

una fogliata di libri

Quant'è fallace, disillusa e caparbia la dimensione umana

Giulia Ciarapica

È in libreria, edito da Fazi, “Quel tipo di ragazza”, di Elizabeth Jane Howard

"Amare una cosa non equivale a conoscerla". Semplice, lapidaria, perfino banale. La frase che Elizabeth Jane Howard mette in bocca ad Anne in “Quel tipo di ragazza” (Fazi) sembra innocua e per questo sussurrata con noncuranza, ma a un occhio attento rivela tutta la portata del romanzo: Howard torna sempre sul luogo del delitto – che per lei equivale al rapporto di coppia, ai tic delle donne, ai vizi degli uomini – e lo fa con eleganza e originalità. Non è facile costruire una narrazione interamente su queste cose – matrimoni, figli, amanti, gente di successo e grandi falliti – eppure lei ci riesce senza apparire monotona. Howard conserva un punto di vista speciale, che vuol sembrare convenzionale ma che alla fine lascia il lettore a bocca aperta.

  
Più che indagare le azioni del romanzo – tutto presto detto: all’interno di una coppia consolidata, quella di Anne e Edmund, s’inserisce Arabella, figlia di Clara, matrigna “illustre” di Edmund, ventenne sola e dal grande potere seduttivo: il triangolo amoroso prenderà fuoco nel giro di poco – c’interessa capire come da frasi piccole e sbadate, apparentemente gettate in pasto alla pagina senza immaginarne l’effetto, Howard ci conduca in un viaggio introspettivo, in cui la coppia è tutto ma i singoli individui, uomo e donna, sono la radice del bene e di ogni male.

 
“Il segreto di una relazione era dirsi sempre quasi tutto…”, scrive l’autrice riferendosi ancora ad Anne e Edmund, ma poche pagine dopo, quando l’uomo incontra Arabella per caso sul treno (lei sarebbe dovuta andare direttamente da loro, che attendevano il suo arrivo, ma preferisce vagare in solitaria senza dire nulla) propone al lettore questo dialogo: “‘Hai telefonato ad Anne?’ / ‘Anne?’./ ‘Mia moglie. Per annunciare il tuo arrivo’./ ‘Oh… tua moglie. Purtroppo no’. Edmund non vide la sua espressione per via degli occhiali scuri’”. Il non detto, parte integrante di ogni romanzo di Howard, inizia a sibilare già dalle prime battute fra Edmund e Arabella, quando tra loro si frappone l’ostacolo di Anne: a quel punto gli occhiali scuri della ragazza salvano entrambi dall’imbarazzo che, sia i protagonisti che il lettore, scopriranno poi essere giustificato dalla relazione extraconiugale.

 
Proprio quegli occhiali scuri che Arabella dirà di portare “perché così vedo le persone prima che loro vedano me”, sono il simbolo di qualcosa di più, quasi equivalgono al maglione nero che indossa Janet dopo la sfuriata con l’ex compagno Henry, nonché ex amante di Arabella (“Il nero è sempre la scelta migliore dopo un gran pianto o una notte insonne”, scrive l’autrice, lasciando intendere al lettore che lei conosce a menadito tanto quel tipo di situazioni quanto gli eventuali rimedi): questa storia secondaria dice molto anche della vita privata di Howard, che pure dissemina le sue tracce di donna in tutti i personaggi femminili del romanzo e dei suoi scritti in generale.

 
Ciò di cui Elizabeth Jane Howard si fa portavoce non è legato soltanto alle dinamiche di coppia, al concepimento dell’idea di amore, di non amore o accettazione del fallimento, ma riguarda la fallace, disillusa e caparbia dimensione umana. Howard non si limita a dirci cosa accade, lei ci propone storie che sembrano ricordi di una sua vita più o meno recente, più o meno lontana. Non giudica (ma forse si fa giudicare?) lasciando al lettore il compito di capire in quale terreno mettere i piedi.
 

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