(grafica di Enrico Cicchetti)

Una Fogliata di libri

Scrivere per abbandonare il peso della volontà di scrivere

Marco Archetti

Come si riesce a mettere su uno spartito di scrittura perfetta, pieno di intelligenza musicale?

Ascolti i Concerti per violino di Johann Sebastian Bach mentre la Metro brulica di studenti. Alcuni, trafelati, ripassano. Altri, riposatissimi, coglioneggiano. E tu, intanto, dalle sponde della realtà, scivolando nel fiume della musica – un fiume in cui ti bagni due volte o tre ed è sempre lo stesso, la stessa grazia, lo stesso inconcepibile miracolo – pensi: bisognerebbe scrivere così, danzando così, nella vita profonda, senza perdere in levità.

E non si tratta di un pensiero romanticoide, ma di ossessione vera: come si fa a scrivere con quella leggerezza che è un po’ la saggezza della scrittura, e tuttavia con peso specifico e gravità essenziali? Come si fa a trar fuori dalle parole, dal periodo, dalla partitura sempre riottosa della sintassi, dalla materia ancor più ingovernabile del mondo e dal confronto vero con tutto ciò che accade, un corso che sembri naturale, un etereo snodarsi, un volo di parole, una traiettoria che ricordi il vento quando gonfia una vela, e che non sia solo zefiro – “zefiro torna e ‘l bel tempo rimena…” – ma sappia anche inoltrare sentori levantini, macchiarsi di presagio, volgere in grecale, insomma, uno si chiede, uno si tortura: come si riesce a mettere su uno spartito di scrittura perfetta, pieno di intelligenza musicale che è sempre, inevitabilmente, anche intelligenza della prospettiva?

 

Solo chi sappia condurre un pallone aerostatico può rispondere. Così è inevitabile rivolgersi ai grandi manovratori, ai grandi compositori, e alle migliori pagine di Honoré de Balzac. O a quel superlativo aviatore che fu William Makepeace Thackeray in “Fiera di vanità” – cercarsi la traduzione Frassinelli 1996 di Maura Ricci Maglietta, collana I classici classici curata da Aldo Busi, sennò lasciar perdere. Oppure a quello Stendhal splendidamente egotista cui bastava una manciata di giorni per un’intera “Certosa di Parma” che, a leggerla, sembra essersi proprio scritta da sé, venuta su come un vento da origini ineluttabili e impercettibili gradienti di un’anima assoluta (chi non abbia mai letto “Vita di Henry Brulard”, poi, rimedi immediatamente e svenda a una libreria dell’usato tutta l’inerte carriolata di autofiction modaiola che si è fatto convincere a leggere negli anni, risarcendosi così dell’impossibilità di trascinare ognuno di quegli scrittori in tribunale dopo averli citati per lesioni, quelle procurate alla mandibola da cinquemila sbadigli; quindi, con gli euro ricavati dalla tratta dei polpettoni, compri tante copie di Stendhal e le regali a chiunque, lì, su due piedi, fuori dalla libreria – ricevere il male ma far sempre il bene). 

 

E poi c’è la musica da camera: impossibile non pensare ad Arthur Schnitzler – “Beate e suo figlio” è, forse, la sua partitura più sublime. E nemmeno per Dino Buzzati si deve tacere l’ammirazione, per l’intelligenza del tocco e la sua personalissima via alla poesia che si fa in prosa – “In quel preciso momento” ne è la prova musicalmente più evidente. Certe pagine di Raffaele La Capria fanno pensare che sì, sia possibile far sorgere la scrittura come da un accordo di giusta misura – “avrei voluto scrivere libri ariosi ed estroversi,” dice lui che ne ha scritti eccome, “senza specchi e riflessioni davanti agli specchi”. Oppure si ambisca a Goffredo Parise, alla sua immediatezza percettiva, a quell’intavolatura sempre leggera.

Programma di vita e di lavoro: scrivere per abbandonare il peso della volontà di scrivere. Separarsi da sé, perché l’ombra si stacchi da terra.
 

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