Grafica di Enrico Cicchetti 

una fogliata di libri

Robert Frost e l'inesorabile sentore di pienezza che ci conquista

Edoardo Rialti

“Fuoco e ghiaccio” è il titolo della nuova raccolta in traduzione italiana del "poeta d’America" (Adelphi)

Ogni poesia comprende tutte le altre, esprime anche ciò che non dice o nega. È linguaggio in orbita, come scrisse Seamus Heaney. Parifica con l’esistenza, comunica una saggezza che supera sempre quanto sappiamo trarne, fosse pure lo sguardo rinnovato a un albero, al rumore di un chiavistello. “Nero era tutto ciò che stava in luce / col fumo tenue di una sigaretta / e una fiammella smilza come l’epatica, / la sanguinaria e le viole ormai imminenti”.

 

Robert Frost è “il” poeta d’America, vate come lo era stato Walt Whitman nelle generazioni immediatamente precedenti. “La strada non presa” apre il dramma della vocazione individuale ne “L’Attimo Fuggente” di Weir, “Sosta vicino a un bosco in una sera di neve” chiude “Love” di Noé. Nella vulgata, il suo nome si associa all’austera intensa gioia di essere al mondo, all’amare ciò che amiamo per ciò che è, a satire dolceamare (“Chiedo di parlare con Dio, / cosa vuoi farci con Dio? / posso spiegare solo a Dio / che Dio non esiste”, notava nei suoi taccuini), alla forza ruvida e intensa delle cose e del paesaggio, dove vibra un ritmo che si coglie nel “timbro di approvazione della zappa”. Eppure la sua vastità e altezza supera tutti i paludamenti e i facili incasellamenti, giacché in fondo a colpirci è l’inesorabile sentore di pienezza che si diffonde tra le sue pause, silenzi, omissioni. “Può esserci poco o molto oltre la tomba, / ma finché non vedono i forti non dicono nulla”. Questa non è una poesia da gustare con una camicia a scacchi, bevendo il caffè. Tanto varrebbe dire che per esporsi davvero a Proust si debba fumare una sigaretta, in smoking, durante un ricevimento a Parigi. E’ un’esperienza terribile eppure calma. Quanto vi accade è ciò che essa stessa cerca di additare: “Una specie di gancio mi prese / per la giacca e mi piazzò seduto”. “Fuoco e ghiaccio” è il titolo della nuova vasta raccolta in traduzione italiana (Adelphi, a cura di Ottavio Fatica) ed è difficile non pensare che la si sarebbe potuta intitolare anche “Fuoco è ghiaccio”, perché – nota Fatica – “la bellezza è un anelito – o un rantolo – tra due cliché”. Accanto all’orecchio, la voce del poeta mormora affidabile, con semplicità proverbiale (“Si pensa siano gli alberi / a generare il vento e non sai / che soffia ma li vedi mossi”) che è sempre frutto di una raffinatezza che cancella le orme del proprio sforzo, riprende Browning e Keats, e sorprende il lettore facendo confluire le parole e il pensiero nel ritmo e negli accostamenti del metro. Cavi del telefono come alberi, alberi come uomini, “la caduta / delle mele assoluta come quella / inflitta dalla mela all’uomo”. Il profumo della frutta marcita fa esclamare “Qualcosa resti sempre non raccolto!”. E’ quello che occorre augurarsi da ogni lettura. “Qui le tue acque dove abbeverarti. / Bevi e di là da confusione torna integro”, perché finalmente riconciliati coi silenzi che si stendono nel mare buio tra le stelle. Ancora una volta, non c’è quasi verso che in fondo non incarni semplicemente la restituzione potenziata dell’esperienza attraverso il linguaggio ma anche il metodo oscuro della poesia stessa, l’unum necessarium cui aprirsi per lasciarla operare, “se ti lasci guidare / da chi ha soltanto a cuore il tuo smarrimento”. Paura, gioia, dolore, così, non devono più alternarsi, possiamo viverli insieme: “Niente di nuovo… qualcosa di dimenticato: / è per tutti la guerra, anche i bambini. / Non avrei dovuto dirvelo e non devo. / Il miglior modo è salire con me sul colle, / fare il falò, ridere e aver paura”.

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