Kavafis e la cornice del suo presente assoluto

Matteo Marchesini

Molti tratti dell'autore greco possono far pensare a quel poeta in senso lato alessandrino che è stato Sandro Penna. Lo ricordano i suoi giovani dèi

Se ogni tentativo serio di traduzione convive con la coscienza della sua impossibilità, questo è vero soprattutto per la letteratura moderna. Eppure ci sono casi in cui sembra che perfino una traduzione mediocre possa restituire l’essenziale del testo d’origine. Forse dipende dal fatto che quel testo è già straniato dalla sua lingua, e si fonda comunque su una visione del mondo così eccezionale da apparire autonoma rispetto al medium nel quale si manifesta. Lo si è detto a volte del praghese Kafka, che scriveva in tedesco. Negli anni Cinquanta, in uno dei suoi equilibrati articoli sulla lirica europea, all’autore del “Processo” Eugenio Montale associò Kavafis, che si serviva di un greco in parte puristico e in parte demotico. L’associazione suona curiosa, e chissà se a farla scattare hanno contribuito i cognomi; ma è anche felice, malgrado le enormi differenze tra i due scrittori, perché permette al recensore di metterne in luce un tratto comune e decisivo.

 

In entrambi il quadro allegorico, o l’ostensione piana quanto perentoria di eventi e figure di cui non si sa bene a che spazio e tempo appartengano, dànno l’illusione di una radicale indipendenza dalla fonte ambientale e linguistica, imponendosi al lettore come fatti inconfutabili al di là di ogni verifica. Se Montale chiamava Kavafis “narratore in versi”, “mitografo” e addirittura “mitomane”, vent’anni dopo il suo avversario Pasolini riassunse la questione osservando che questo poeta “non ‘parla la parola’ (Lacan): parla, ancora, la cosa”, e sospettò che la “situazione” fosse in lui assai più forte della “pagina”, “come succede per i grandi romanzieri che scrivono male”. Chi può accedere al neogreco assicura in effetti che non di rado il tentativo kavafisiano di fondere registri differenti dà esiti stilisticamente goffi o improbabili. Eppure la poesia resta, appunto inconfutabile, almeno in qualche decina di testi a cui l’autore deve una fama non effimera.

 

Konstandinos Kavafis, coetaneo di D’Annunzio, nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1863 e morì nel 1933 il giorno del suo settantesimo compleanno. Figlio di commercianti agiati di Costantinopoli, in questa città e soprattutto in Inghilterra trascorse gli anni dell’infanzia. Da adulto rimase ad Alessandria, rinunciando alla cittadinanza inglese per quella greca e impiegandosi al Ministero dell’Irrigazione. Nei caffè vicino a casa sua, ormai anziano, lo conobbero i concittadini Ungaretti e Marinetti. In vita Kavafis pubblicò solo fogli volanti, versi sparsi su rivista, e due esili raccoltine. Il corpus che aveva sapientemente ordinato per la stampa comprende invece 153 poesie, alle quali le edizioni postume aggiungono un’altra prova. Ce ne sono poi 74 “segrete”, che conservò pur non destinandole alla pubblicazione (parecchi manoscritti sono accompagnati da un “Not for publication; but may remain here”); e c’è anche un buon numero di testi rifiutati ma non distrutti, spesso giovanili, alcuni in inglese.

 

Oggi si trovano riuniti nel volume di “Tutte le poesie” curato da Paola Maria Minucci per Donzelli. Nella sua postfazione, la Minucci nota che il poeta ha toccato la maturità artistica solo dopo i quarant’anni. Ma è una maturità di cui non si accontenta mai, come testimoniano qui le diverse versioni di un testo corretto anche a grande distanza dalle prime stesure e reso di solito più scarno. Del resto il ritorno sul passato è il tema per eccellenza di Kavafis. In gioventù, con Baudelaire e Shakespeare, tradusse i passi di Dante e Tennyson su Ulisse, e una delle sue liriche più famose è dedicata a Itaca, dove suggerisce di tornare dopo molte esperienze per disilludersi nel frattempo sulla meta: meglio, dice, “che tu approdi all’isola da vecchio, / ricco di ciò che hai conosciuto lungo la via, / senza aspettarti altre ricchezze. // Itaca ti ha dato il bel viaggio. / Senza di lei non l’avresti mai cominciato. / Non ha più nulla da darti. // E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso. / Saggio, con tutta la tua esperienza, / avrai ormai capito quel che significa un’Itaca”.

 

La poesia di Kavafis nasce dal ricordo, perfeziona il vissuto: “I fatti, anche i più vivi, non mi ispirano subito. Prima deve passare del tempo” ha dichiarato. E per fatti intende prima di tutto le apparizioni dei ragazzi amati, di cui precisa puntigliosamente l’età. Sono ventenni spiati ai caffè, feriti nelle risse da taverna, descritti nei dettagli delle labbra e delle membra agili mentre s’immergono in mare, sorpresi nella penombra di camere oltre le quali batte un sole languido o scende la notte levantina. E sono, ancora, i giovani morti dei ritratti tombali, spesso datati a un’antichità immaginaria. Perché in Kavafis il mondo dell’Otto-Novecento si mischia con quello dei regni ellenistici cancellati da Roma, o con quello che nei primi secoli dopo Cristo vide gli scontri tra pagani e cristiani. Ciò che queste epoche hanno in comune tra loro, e con la nostra, è un melting pot di voci, colori, credenze che convivono senza più un ordine. Anziché attualizzare il passato, Kavafis lo usa come una cornice in cui inserire il suo presente assoluto. L’effetto è che le cose viste nel “dicembre del 1903” e gli avvenimenti del 160 non sembrano separati da nessuno strato storico. Tutto si fissa nella misura di un bassorilievo che riesce miracolosamente ad assorbire e dissolvere in sé l’estetismo esibizionistico di tanti contemporanei del poeta. La suggestione di queste ekphrasis immaginarie, e dei monologhi, dei dialoghi, dei commenti che le circondano, sta nella naturalezza con cui Kavafis allinea senza cambiare tono nomi, scorci, situazioni culturali lontanissime, inserti gnomici ed esortazioni a un tu che rappresenta il nocciolo comune a ogni essere umano. Al tempo senza tempo della sua storia corrisponde una geografia mediterranea che favorisce non poco la metamorfosi del diacronico in sincronico: quella che va dalla Siria al Tirreno, da Bisanzio alle coste italiane - un’Europa greca “con amori ed emozioni d’Asia”.

 

Questi amori e queste emozioni hanno soprattutto a che fare con il “piacere”, mentale e fisico, in nome del quale il poeta invita a lasciarsi le leggi alle spalle. E d’altra parte sono leggi che non sembrano minacciare troppo l’identità. Si ha l’impressione che violandole un uomo possa magari esporsi a rischi notevoli, ma anche che le conseguenze non riuscirebbero a sfregiare con la vergogna la sua immagine. Diamo ancora la parola a Pasolini, che nel suo modo sommario va alla radice della questione. All’interno di una realtà non pienamente occidentale come quella kavafisiana, afferma nel pezzo già citato e ora raccolto in “Descrizioni di descrizioni”, non si conosce la “‘dignità’ falsa dell’uomo che ha una falsa idea di sé”: “Si cede alle debolezze umane, o ci si attiene ai codici; oppure ci si dà delle arie (i potenti, i sacerdoti), con la stessa ingenuità con cui i semplici invece, si abbandonano, appunto, alle ingenue debolezze umane. L’eventuale condanna religiosa (nella fattispecie quasi sempre puramente nominale) non si fa mai moralistica. Dalle poesie di Kavafis traspare perfettamente questo mondo ingenuo e ingenuamente degradato e corrotto”. Se un sentimento increspa a volte le pacate constatazioni che il poeta svolge intorno ai suoi amori è semmai l’orgoglio di bere solo dal calice del suo peculiare piacere omoerotico. Un calice, per dirla di nuovo con Pasolini, che nutre vicende amorose insieme più leggere e più tragiche di quelle degli eterosessuali, dato che non possono essere legittimate (con tutta la gravità che il riconoscimento pubblico comporta) ma allo stesso tempo non possono adagiarsi tranquillamente in una durata (il ventenne cresce, e l’oggetto d’amore sparisce in un altro corpo).

 

Quanto all’orgoglio, comunque, anche il lettore che ha a disposizione “Tutte le poesie”, dopo averle meditate una per una, torna come il critico di “Descrizioni di descrizioni” a quel vero e proprio manifesto che è “Sui loro letti mi distesi e giacqui” (un manifesto “segreto”, però, da mettere in dialettica con “Sulle scale”, che descrivendo il nascondimento dell’inclinazione autentica e la recita dell’inclinazione falsa ne è in qualche modo il rovescio): “Quando entrai nella casa del piacere / non rimasi nella sala dove si celebrano / con un certo decoro gli amori ammessi. // Andai nelle camere segrete / e sui loro letti mi distesi e giacqui. // Andai nelle camere segrete / che per loro è una vergogna anche solo nominare. / Ma non vergogna per me – perché altrimenti / che poeta e artista sarei? / Meglio l’ascesi allora. Sarebbe più conforme, / molto più conforme alla mia poesia / che godere nella sala dei piaceri comuni”.

 

Molti tratti di Kavafis possono far pensare a quel poeta in senso lato alessandrino che è stato Sandro Penna. Lo ricordano i suoi giovani dèi, che con la loro presenza trasfigurano le strade e i negozi più prosaici; lo ricorda la sua condanna a una solitudine insieme felice e angosciosa; e lo ricordano perfino i dettagli di certe scene, oltre agli onnipresenti sfondi solari e marini. Si accosti per esempio il kavafisiano “S’informava della qualità” al penniano “Per averlo soltanto guardato”, che gioca con lo stesso motivo dell’attrazione dissimulata sulla soglia di una bottega; o si confrontino “Il tavolo accanto” del greco e “Guardando un ragazzo dormire” dell’italiano, entrambi incentrati sull’eterno ritorno dei corpi. L’altra faccia di questa eternità è una precarietà estrema, in cui ci si ritrova abbandonati all’arbitrio di oracoli beffardi e di divinità indifferentemente favorevoli o crudeli. È anzi questa eternità-labilità a stendere su ogni pretesa di affresco storico quell’ombra di sfiducia malinconica che gli sottrae profondità e lo riduce a un quadro a due dimensioni. Le novità o le fake news più clamorose (i destini di Antonio e Cleopatra…) sfumano nel chiacchiericcio dei bazar, e lo sguardo del poeta si sofferma con un po’ di pietà soltanto sulle figure apparse per un attimo alla ribalta della Storia e subito sparite di scena come Cesarione. Ma più che a una vera pietà in atto siamo davanti alla sua cenere: è il sentimento freddo di chi rimane dietro un vetro, perché dietro un vetro, inafferrabile e spettrale, rimane l’essere a cui lo si dedica. In questo senso è straordinaria “Miris – Alessandria, 340 d.C.”, dove l’ambientazione appare subito funzionale al tema del ricordo, che qui anziché conservazione o riappropriazione rischia di diventare perdita e cancellazione di ciò che si è vissuto. Il “narratore” entra nella casa di Miris, un giovane bellissimo che adorava e che è appena morto. I parenti lo stanno piangendo in una maniera che gli è sconosciuta, perché sono cristiani. Anche Miris lo era, e tutti gli amici lo sapevano; ma fino all’agonia sembrava uguale agli altri - allegro, col gusto innato della poesia, quotidianamente dedito ai piaceri. Soltanto adesso il visitatore ricorda dei particolari rivelatori: quando non gradì l’invito scherzoso ad andare al tempio di Serapide, quando si sfilava dal cerchio dei compagni che facevano offerte a Poseidone, quando bisbigliava una negazione davanti alle loro invocazioni ad Apollo… Così a poco a poco la figura del morto si trasforma, e al funerale “Vagamente sentivo / Miris allontanarsi da me; / sentivo che lui, cristiano, si univa / ai suoi e che io diventavo / straniero, straniero del tutto; un dubbio / mi prese: mi aveva forse tratto in inganno / la mia passione e sempre gli ero stato straniero. - / Mi precipitai fuori da quella casa d’incubo, / corsi lontano, prima che il loro cristianesimo / mi rubasse e distruggesse il ricordo di Miris”.

 

Ecco un modo molto poetico di dichiarare, con la delicatezza con cui Kavafis affronta l’irreparabile senza però velarlo, la distanza leggera in apparenza e radicale al fondo tra chi sembra condividere le stesse esperienze. È la fine che mostra questa distanza, cambiando il senso del passato. E la scelta del divario religioso rappresenta perfettamente la scissione: la vita è pagana, mentre la morte, il suo “incubo” di preghiere è cristiano. In definitiva i ragazzi, le cornici finto antiche, le memorie ritoccate alludono sempre a un’alterità che resta un miraggio da consumare in solitudine. Lo stesso si può dire dei protagonisti della più celebre poesia di Kavafis, che non ha data e che vale in ogni tempo, su ogni piano - sociale, metafisico, intimo. In “Aspettando i barbari” tutto un popolo si mobilita in attesa di quest’Altro, sperando che gli dia nuove leggi. Gli prepara doni, rivoluziona le abitudini consuete, si preoccupa di non annoiarlo coi propri costumi. Ma a notte (la notte del giorno, della storia, dell’esistenza) scopre che “i barbari non ci sono più”. “E ora senza barbari cosa sarà di noi” conclude il poeta. “Dopotutto, quei barbari erano una soluzione”. Forse li si ricorderà come se ci fossero stati davvero, e davvero avessimo condiviso con loro un attimo di vita. Dopotutto, hanno un volto indistinguibile dal nostro.

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