Lazarillo de Tormes

Rinaldo Censi

Il libro a cura di Francisco Rico, Adelphi, 162 pp., 18 euro

Testo picaresco? Primo romanzo realista? Lazarillo de Tormes è tutto questo, senza dimenticare la sua forma epistolare. Il titolo originale, quello della prima edizione andata perduta (1552-53), indicava La vida de Lazarillo de Tormes, y de sus fortunas y adversidades. Questo testo senza autore, anonimo, anzi apocrifo, circolato forse in forma manoscritta, a mo’ di lettera, giunto a un editore in modo fortuito, stampato nel 1554, alterato nella punteggiatura e nella struttura tipografica, snaturato con un prologo e sette capitoli posticci che minavano l’andamento continuo del racconto, resta ancora oggi uno dei libri più affascinanti e divertenti che si possano leggere. Le traversie del giovane servitore, il racconto a Vostra Grazia delle sue avversità, ci permette di incrociare ciechi spilorci, chierici tiranni e avidi, nobili Hidalgo che non sono quello che sembrano, falsari spacciatori di bolle papali. Fino al lieto fine, dove ritroviamo il nostro Lazarillo banditore, sposato e (forse) cornuto. Il tono quasi colloquiale del suo resoconto ci fa scivolare tra le vicende narrate, tanto che a volte non ci accorgiamo delle improvvise ellissi, dei salti di quadro, come se questa lunga lettera fosse il diabolico sogno letterario architettato da qualche trickster. Il più accreditato resta Diego Hurtado de Mendoza, il cui nome appare ancora sulle copertine di vecchie edizioni, ci dice Francisco Rico. O forse Juan de Ortega, a voler assecondare la soffiata di un appartenente dell’Ordine di San Gerolamo, che aveva ritrovato una copia “scritta di sua propria mano”. Congettura per congettura, gli preferiamo quella che rintraccia i creatori in un gruppo di vescovi spagnoli in viaggio per il Concilio di Trento. Resta il fatto che l’artefice di questa cronaca fintamente dimessa, di questa finta lettera supremamente ambigua, che si pone ai margini della letteratura alta, eccentrica, conosceva i classici. L’ouverture allude a Cicerone, a Orazio. Cita Plinio (“non vi è libro, per quanto cattivo, che non contenga una qualche cosa buona”). Una dissimulazione onesta? Di certo, su questo sfondo narrativo fintamente banale, Lazarillo si muove come in una comica slapstick, dotato di un’umanità senza speranza, con la delicatezza goffa e sognante di un Harry Langdon. Prendete le pagine in cui Lazarillo tenta disperatamente di sfamarsi, sottraendo panini votivi dall’arca del chierico tirchio a tal punto da privarlo del cibo. Si fa consegnare da un calderaio la copia della chiave dello scrigno. Ma il sotterfugio dura poco. Il chierico, attento, oltre che tirchio, annota il numero dei panini e allora da quel momento è tutto un piluccare briciole, sottrarre minuzie fingendo che siano i topi a compiere il misfatto. E avanti così, tra mosse e contromosse. In copertina, le Teste in un paesaggio di Goya ci osservano. Scelta azzeccata. Anche Goya, dopotutto, aveva ritratto il nostro picaro.

  


 

(a cura di Francisco Rico)
Lazarillo de Tormes
Adelphi, 162 pp., 18 euro

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